Nati "Non Ok". Emanciparsi dal romanzo famigliare

Inviato da Nuccio Salis

catena spezzataOperare attraverso il counseling significa riconoscere all’altro da noi qualità e potenzialità che, al di là se siano in espressione o aventi carica latente, bisogna ricercare e vederci al tempo stesso un attributo di potere legato alle istanze di cambiamento. Il sostegno e l’ascolto attraverso il counseling assume dunque la forma di un investimento di fiducia verso il prossimo; un intervento solidale, partecipe ed esortativo circa l’attuazione di nuovi piani esistenziali, da dirigere verso un rinnovato spessore di qualità di vita e della natura del proprio essere. Tale percorso rivoluzionario e ristrutturante riguarda il complessivo modello del Sé, dentro il cui caleidoscopio vi sono anche quei nuclei espressivi formatisi a seguito delle dinamiche relazionali sviluppatesi nei contesti primari. Quindi, una delle colonne portanti che costituisce il modo personale di autorappresentarsi, cioè l’intero impianto di un Sé soggettivo, include quel nucleo sociale del Sé che emerge in virtù dell’esperienza assimilata nell’ambiente famigliare.

Il tema dell’influenza primaria da parte dei partners significativi acquisisce sempre una notevole valenza argomentativa, ed è quasi sempre accompagnato da una comune chiave di lettura deterministica che sembra avere difficoltà ad oltrepassare il proprio sguardo al di fuori del legame causale fra esperienza primaria e caratterizzazione del Sé. In pratica, si finisce molto spesso col concludere che le manifestazioni psico-comportamentali siano il prodotto consequenziale di un vissuto risalente alle fasi evolutive della prima e seconda infanzia. Non sarebbe certo corretto sul piano scientifico ignorare questo aspetto, nemmeno al tempo stesso ascriverne una forza di modellamento incontrovertibile e non gestibile dall’individuo. Altrettanto ingenuo, credo, sarebbe pensare classicamente che la verità “sta nel mezzo”, anche perché, se si tratta di verità, dubito abbia bisogno di dipendere dai dualismi per avere ragion di esistere.

Quando, per mezzo di un intervento legato ai modelli di counseling, si procede ad esplorare le risorse in seno alla persona, non è da escludere, ed anzi è assolutamente quasi certo, che sia la medesima persona ad interpretare la propria storia ed i propri vissuti, ed a farlo proprio alla luce di quel corpus concettuale che prevede quell’irremovibile rapporto proposizionale del tipo “SE nella mia famiglia si usava fare X… ALLORA è naturale che io ora faccia Y”. Il pattern attraverso cui si offre una visione delle cose ai propri fenomeni esperienziali, viene indissolubilmente legato a doppia catena a tutte quelle pregresse e circostanziate contingenze risalenti alla propria esperienza socio-affettiva primaria.

Procedere mediante un approccio del tipo counseling significa avere, su questo punto, un atteggiamento osservativo discreto, che utilizza tali eventuali informazioni come contenuto del materiale narrante che rivela la natura dell’intera costellazione di significati che ciascun soggetto imputa a se stesso ed alla propria biografia. Tale aspetto è dunque utilizzato nella consulenza supportiva ai fini della conoscenza e della comprensione, secondo uno stile accogliente e rispettoso. Non è dunque quel tipo di verità che “sta nel mezzo”, ma un atteggiamento professionale che ha un suo luogo autonomo e fondato, una regione autoreferenziale ed aperta al tempo stesso. Nessun giudizio, dunque, e men che meno nessuna diagnosi, solo una preziosa fonte di dati da avvalorare nella chiarezza e da inquadrare nella possibilità funzionale ed efficace circa il suo eventuale utilizzo.

Bisogna altresì tenere conto di come questo legame deterministico di Causa/Effetto, influenzato da teorie risultate prevaricanti nell’ambito psicologico, si conformi spesso mettendo in relazione variabili negative piuttosto che positive; mi spiego: quando si mettono in rapporto di continuità le esperienze famigliari con le proprie attuali tendenze, se ne parla quasi sempre in termini di insicurezze acquisite, paure interiorizzate, comportamenti disfunzionali introiettati dai modelli primari, sensi di colpa generati da abusi, vuoti affettivi, ambivalenze degli aspetti di caring genitoriale.

L’intero impianto concettuale della psicanalisi di matrice più freudiana, per esempio, è incentrato su questo piano. Crisi, ferite, passaggi evolutivi contrassegnati da angosce, segnano il procedimento verso la maturità delle strutture biopsichiche. Sarebbe come se, riprendendo una critica mossa da Renè Spitz alla psicanalisi, per imparare a camminare dovremmo prima romperci le gambe. Seguendo questo paradigma alle sue estreme conseguenze, infatti, la nostra condizione primaria di vulnerabilità è stata sempre in qualche modo abusata, violata e strumentalizzata, anche inconsapevolmente, si intende, a tal punto da renderci incapaci di proiettarci all’esistenza secondo il principio di vita. Questo ci priverebbe del senso di iniziativa, rendendoci apatici, anedonici, facendoci percepire come sudditi delle circostanze, sempre preda di pericoli e insidie nascoste. Secondo questo modello, dunque, non esiste l’attaccamento sicuro, e ciò è vero, se si considera che non può esistere la permanenza e la stabile affidabilità di uno stile di caring genitoriale, seppur funzionale, nei confronti del neonato. Il punto di rottura con tale schema si ha non negando questi elementi di inevitabile esistenza, ma ridimensionandone il determinismo che ne è alla base. È la linea di confine che si è andata creando nel tempo, grazie, per esempio, a studiosi come Eric Berne, che seppur di scuola psicanalitica, fu grande sostenitore e fautore della volontà individuale come strumento potenziale di ridefinizione e rigenerazione del Sé. Tuttavia nemmeno Berne sfuggì all’indagine speculativa dell’ortodossia ad indirizzo psicanalitico, sostenendo per l’appunto che l’Ego Bambino è sempre un Ego ferito, sovrastato da ingiunzioni genitoriali sottoforma di proibizioni implicite che incidono sulla stima del bambino, sia di se che delle proprie capacità. Il bambino, ciascun bambino, si porta dentro il vissuto di Bambino Non Ok; in quanto ipersensibile alla mancanza di “carezze” (riconoscimenti affettivi) risulta continuamente esposto all’esperienza anche temporanea della privazione o alla frustrazione da anafettività.

Della stessa lunghezza d’onda lo psicanalista ungherese Michel Bàlint, il quale asserisce che ciò che influenza il modo di rapportarci a noi stessi e alla realtà esterna sono i vissuti primitivi, appartenenti al periodo appena successivo alla nascita, che vanno a formare il cosiddetto “difetto di base”, un disturbo precoce delle relazioni oggettuali.

L’affiorare prepotente di un approccio difettologico ha influenzato i meccanismi di spiegazione circa le proprie dinamiche intra ed interpsichiche, diffondendo una psicologia ingenua che facilmente può essere usata in modo inappropriato per semplificare la moltitudine delle nostre motivazioni, e soprattutto per farci riscoprire il nostro potere. Il counseling procede consapevolmente tenendo conto di queste tematiche, aiutandoci ad emanciparci da un’eredità famigliare vincolante, reale o immaginaria che sia, quindi spesso legata anche a un senso di disfatta “epicopionale” che perseguiterebbe il soggetto secondo le trame di una nemesi che non lascia vie di scampo.

La difficoltà su tutto questo è avvicendata al fatto che ciascun individuo, in corso di rielaborazione del proprio Sé, si aprirà inevitabilmente all’esperienza della perdita e del lutto, sconsacrando anche quell’aspetto di se che lo riguarda come essere fondato in parte anche da una rete di rapporti famigliari, e ciò dischiude con elevata probabilità il susseguirsi di un sentimento irreparabile di colpa.

Essere liberi nella dignità e nella capacità di essere se stessi genera infatti vissuti di colpa presso questo pianeta.

Prendere le redini della propria vita ed assumersene la responsabilità ritorna dunque ad essere l’epicentro che riguarda il fine della qualità esistenziale di ciascuno. Il counseling propende in modo appropriato a modellare un atteggiamento di cura di se che rimetta in corsa un principio di individuazione, poichè il Sé venga percepito secondo una prospettiva dinamica, capace cioè di riscriversi senza essere schiacciato o vinto dai suoi precedenti storici.

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