L’utilizzo del Triangolo Drammatico nell’intervento di Counseling – 2° parte


triangolo drammatico_2Nella prima parte di quest’articolo è stato posto il problema relativo ad un’applicazione non standardizzata, nell’analisi della conflittualità relazionale, del cosiddetto Triangolo Drammatico.

Nello stesso tempo è stata sollevata la questione del rischio, da parte del Counselor, di alimentare nel Cliente vissuti emotivi e cognitivi riconducibili ai ruoli di Vittima, Persecutore o Salvatore. Rischio che, paradossalmente, diventa tanto più concreto quanto più il Counselor si impegna a favorire nel Cliente la consapevolezza della distanza tra ruolo psicologico percepito ed effettivo comportamento.

La prima parte dello scritto, perciò, si è chiusa interrogandoci sulle opzioni di cui il Counselor dispone per favorire analisi di realtà senza però partecipare ai giochi ( in senso analitico – transazionale ) del Cliente.

La risposta, a nostro avviso, richiede attenzione su un significativo aspetto delle dinamiche relazionali e cioè gli obiettivi sociali e personali che le persone si propongono di realizzare attraverso la comunicazione. In poche parole, la questione che si evidenzia è che cosa , in senso materiale e principalmente immateriale, esse si propongono di ottenere dicendo e facendo quello che dicono e fanno.

La maggior parte degli individui, quando si relaziona, sa perché lo fa e lo sa in particolar modo quando il rapporto ha una specifica natura professionale oppure sociale.

Ad ognuno è chiara la direzione intrapresa quando comunica, ad esempio, per vendere o promuovere un prodotto tangibile o intangibile ( idea, valore, convinzione, opinione ). Oppure nel momento che comunica per dare regole o per contrapporsi alle regole, per scambiare dati ed informazioni, per dire la propria, per socializzare o semplicemente come passatempo.

Anche nelle sfere private la comunicazione si fonda su un perché ben definito: si vogliono trasmettere emozioni, sensazioni, idee ed opinioni. Si comunica per essere intimi o per rompere l’intimità. Anche nel privato, inoltre, si comunicano regole e rifiuti alle regole. Si comunica per chiedere e per dare.

 

Tutto ciò è alquanto ovvio.

E’ altrettanto ovvio, però, che gli eventi relazionali non seguono sempre questo percorso così lineare. Non sempre, cioè, le persone hanno ben chiaro in mente gli scopi della loro comunicazione o comunque altri obiettivi, non dichiarati e manifesti, accompagnano le mete evidenti e ne orientano la realizzazione.

Che la questione degli obiettivi non sia così semplice e semplificabile lo conferma la conflittualità che spesso segna le relazioni interpersonali, di qualsiasi natura e spessore esse siano, e l’impegno della miriade di studiosi che, a vario titolo, da che mondo è mondo si occupano dei paradossi del comportamento umano.

Karpmann è uno di questi. Il suo modello di Triangolo Drammatico è la modalità con cui illustra e spiega le incongruenze di cui sopra.

I ruoli di Salvatore, Vittima e Persecutore a cui si riferisce per definire le dinamiche “ drammatiche “ trovano specifiche radici la cui natura è legata, per lo più, al particolare orientamento teorico – metodologico dello studioso stesso.

Lo psicologo, ad esempio, potrà ricondurli ai tornaconti intrapsichici che la persona ottiene mettendo in atto comportamenti contraddittori.

Lo psicoanalista potrà ricercarne le origini in una dimensione intrapersonale ancora più profonda, connessa a dinamiche inconsce o comunque strettamente correlate alla storia personale.

Il counselor, dal canto suo, potrà osservare i medesimi processi non da un’angolazione più superficiale, nel senso di meno impegnata ed impegnativa, bensì diversa. Potrà considerare, cioè, se i ruoli drammatici, lì dove non esistano manifestazioni di precisi sintomi psichiatrici, possano trarre la loro origine proprio da una distorsione percettiva e cognitiva degli obiettivi legittimi ed illegittimi che la persona si pone di raggiungere attraverso le proprie modalità comunicative.

 

Allo scopo di indicare, allora, i possibili scenari di intervento del Counselor chiariamo, a questo punto, che cosa si intende per legittimità ed illegittimità degli obiettivi della comunicazione. Vale a dire che indicheremo in riferimento a quali parametri cognitivo – comportamentali - sociali una meta relazionale, dal nostro punto di vista, è da ritenersi legittima o meno.

E’ opportuno precisare che, trattando quest’argomento, non ci riconduciamo a categorie quali giusto e sbagliato, bene o male né prendiamo in considerazione criteri di giudizio connessi a forme di accettazione sociale ( fermo restando che le nostre argomentazioni riguardano sempre e comunque comportamenti morali e non a-morali, socialmente previsti e non a-sociali ) .

La nostra attenzione si concentra sul legame logico tra a) l’obiettivo della comunicazione, b) la natura dell’ambiente relazionale in cui avvengono gli scambi verbali e non verbali e c) il ruolo assunto in esso dai partecipanti alla comunicazione.

Intendiamo dire che, in una relazione, un obiettivo è legittimo quando attiene al ruolo svolto dalla persona in quella relazione ed alla natura della stessa. Quando rimanda a motivazioni ed aspettative che, pure se non manifeste e condivise, sono però condivisibili ovvero risultano comunque connesse all’obiettivo dichiarato ed ai ruoli sociali svolti dai partecipanti alla relazione.

 

L’obiettivo dichiarato e sociale di un venditore, ad esempio, è concretizzare l’acquisto da parte del cliente. Un obiettivo non condiviso, ma legittimo, è realizzare per sé un vantaggio economico. Un’altra meta altrettanto congruente al contesto è trasmettere all’interlocutore una buona immagine di sé e dell’Azienda a cui appartiene. Un altro fine legittimo è suscitare l’ammirazione dei colleghi.

Nel privato, ad esempio, l’obiettivo di un genitore, quando comunica al figlio le regole che orientano la vita familiare, la meta legittima è favorire benessere e protezione. Un ulteriore obiettivo è rafforzare il riconoscimento della sua autorità genitoriale sia da parte di chi ne è il destinatario sia, a volte, di sé stesso/ stessa.

In un caso e nell’altro, perciò, ci riferiamo a mete che in qualche modo e misura sono connesse logicamente ai ruoli svolti dalle persone impegnate nella relazione ed alla natura dei rapporti, quelle che devono o dovrebbero orientare la comunicazione pur se accompagnate, ma non esautorate, dall’insieme di obiettivi personali, non manifesti e non condivisi.

Questa dinamica appare, ad una prima osservazione, anch’essa alquanto ovvia.

Pure in questo caso, però, gli eventi non seguono sempre un percorso previsto e prevedibile. La conflittualità che spesso segna le relazioni interpersonali, che siano sociali o private o professionali, ancora una volta ci ricorda che gli obiettivi condivisi, ossia la meta che manifestamente ha dato luogo alla comunicazione, può essere posta in secondo piano ( e a volte terzo o quarto ) da finalità di natura personale. Ci riferiamo a fenomeni che generalmente sono al di là della piena consapevolezza di coloro che li mettono in atto. In ogni caso, quando si verificano, generalmente producono effetti relazionali indesiderati .

Ecco che allora, ad esempio, nel venditore la spinta a suscitare l’ammirazione dei colleghi può offuscare l’analisi di realtà e distrarlo da quanto sta effettivamente accadendo, nel qui ed ora, con il cliente. O, nel genitore, il bisogno di affermazione può inibire una trasmissione efficace delle regole ( alzare il tono di voce o battere il pugno sul tavolo possono determinare nei figli distanza o un vero e proprio rifiuto della regola o della stessa autorità genitoriale ).

In tali circostanze il nostro ipotetico venditore potrebbe trasformarsi in un Persecutore ( ai primi accenni di dubbio o in caso di rifiuto da parte del cliente ) e, nello stesso tempo, sentirsi Vittima di questa resistenza.

Qualcosa di simile potrebbe verificarsi nella relazione tra il genitore di cui sopra ed i figli. Il comportamento del primo, infatti, potrebbe esprimere un ruolo da Persecutore accompagnato da un vissuto di Vittima.

Entrambi produrrebbero, in più, un dialogo interno ( emozioni e pensieri ) di critica, diventando così Persecutori di sé stessi, o di conforto, traducendosi in tal modo in Salvatori di sé medesimi.

Qualora essi si rivolgessero al Counselor, lo farebbero consapevoli del loro sentirsi Vittima ma probabilmente inconsapevoli del loro agire da Persecutori.

La loro richiesta sarebbe, si può immaginare, di aiuto per uscire dal primo ruolo e non dal secondo ( “ Come posso non essere più Vittima di … ? “ e non “ Come posso non essere più il Persecutore di … ? “ ).

Nella terza parte dell’articolo valuteremo le possibilità pratiche, per il Counselor, di dare risposta alla prima domanda senza, come già sottolineato, entrare a far parte del Triangolo Drammatico inscenato dal Cliente.

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