Società, individuo e socialità


Società, individuo e socialità

Foto di Steve Watts da Pixabay

           È il covid 19 deus ex machina che attraverso la paura del contagio è padrone della nostra vita, dei nostri pensieri, delle poche scelte che ci sono concesse nel tempo come nello spazio, che condiziona il che cosa facciamo, se andare, dove andiamo e quando?

Se fosse così, sarebbe sufficiente avere al più presto un’arma efficace con cui combatterlo e torneremmo liberi.

La realtà, tuttavia, si dimostra ben diversa, tanto che la pandemia non ha che ancor più evidenziato crepe profonde e segnali inquietanti del nostro sistema sociale.

Per quale motivo queste riflessioni sulla nostra società, che possono apparire generiche e teoriche, lontane da un agire pragmatico, appartengono alla professionalità del counselor? Il counselor è chiamato a gestire con competenza la relazione d’aiuto individuale e di gruppi; per quali motivi l’immagine più recente e meglio definita/analizzata della società, può rendere più efficace il suo aiuto? Le ragioni sono tante, limitiamoci ad una condizione imprenscindibile per il counselor: la consapevolezza, percezione del qui e ora, nella contestualizzazione del presente, nel dinamismo passato-presente-futuro, determinante per individuare ogni segnale per il cambiamento necessario alla persona in aiuto e a se stesso.

Dunque, osservare la nostra società, con il contributo di esperti di altre discipline è vitale perché il counselor consapevole possa aiutare la persona in aiuto in quella operazione di contestualizzazione del proprio problema che è il primo passo per avviarne un procedimento di alleggerimento e persino soluzione.

           Ho scelto qualche passo da un lungo articolo del sociologo Franco Ferrarotti, proprio perché incentrato sui segnali inquietanti del nostro mondo sociale in cui il covid 19 non è forse solo una comparsa ma di certo non è il protagonista. Due parole hanno immediatamente allertato la mia attenzione:panlavorismo e la cronofagia, definite le due caratteristiche delle società industrializzate [che]emergono con chiarezza anche se le loro conseguenze ultime restano, comprensibilmente, misteriose.

           È evidente che per comprendere che cosa stiamo vivendo, occorre osservare con qualche distacco prospettico l’intero fenomeno dell’industrializzazione e delle industrializzazioni, da anni consolidato in un sistema dalle caratteristiche che in modo silente e progressivo abbiamo finito con l’accettare e…non vedere più.

           Questo è il nostro mondo, descritto a tinte forti da F.F.:

Prevale la frenesia del nuovo a tutti i costi, come se il nuovo dovesse coincidere necessariamente con il meglio e non solo con il diverso. La velocità del processo si pone come il supremo valore finale e non solo strumentale. La tecnologia come scienza applicata celebra i suoi trionfi. Nessuno osa ricordare che essa è solo una perfezione priva di scopo.[…]

Si compra e si vende, a distanza ma in tempo reale, semplicemente "cliccando", pigiando un tasto, senza muoversi dalla propria sedia, senza uscire dalla propria stanza, abolendo con un piccolo, minimo gesto quella che massimamente temeva, quale freno insuperabile allo sviluppo della ricchezza delle nazioni, Adam Smith: la "frizione dello spazio".

Nessuna meraviglia che le istituzioni tradizionali, dalla famiglia al parlamento, entrino in crisi, traballino. L'individuo si stempera in una molteplicità di figure parcellizzate. I grandi valori, tenuti troppo a lungo sotto vetro a scopo di protezione, hanno l'aria smorta e cadente dei fiori appassiti. I vecchi poteri lamentano una irreparabile perdita di aura. L'autorevolezza in crisi tende a farsi autoritaria.

Avanza lo scollamento fra società civile e classe di-rigente.[…]

Quello in cui siamo cresciuti, se n'è andato attraverso il buco nero del lavandino della storia. Quel sociale si è semplicemente liquefatto, non c'è più, ma i sociologi non se ne sono accorti. Assorti nei loro diligenti calcoli di percentuali e di coefficienti di correlazione che, invece di comprendere il sociale nel suo vivo, palpitante farsi, nelle loro mani servono spesso a tenerli separati dalla vita, i sociologi continuano a studiare e a dottamente disquisire di quello che non c'è più. […]

Resta da costruire la dialettica relazionale: dobbiamo definire le funzioni degli spa-zi di mediazione, la loro modalità di intervento sugli individui, leggerli anche dall'altra parte, ossia partendo dalla prospettiva dell'individuo che a sua volta li sintetizza orizzontalmente (nel suo contesto sociale immediato) e verticalmente (nella successione cronologica). Sono in particolare da individuare gli spazi più importanti, quelli che servono come cerniere fra le strutture e gli individui, i campi sociali dove si fronteggiano più direttamente la prassi singolarizzante dell'uomo e lo sforzo universalizzante di un sistema sociale.

Noi non viviamo, ma conviviamo.

Non siamo né totalmente indipendenti né totalmente determinati. Siamo inter-dipendenti.

Ciò significa che i problemi dell'individuo non si esauriscono nei termini di una questione puramente individuale Al di là di ogni concessione allo psicologismo, non siamo né causalmente determinati né sovranamente liberi.

Gli individui sono condizionati.

Da che cosa? Dalle situazioni di fatto in cui gli capita di nascere, crescere, svilupparsi, morire.

Questa è l’urgenza: una socialità da reinventare. Le misure di contenimento contro l’epidemia chiamano in causa i problematici rapporti fra individuo e società.

[Franco Ferrarotti, in Prometeo, anno 38, n. 150, giugno 2020, pp. 50-55]

           È appunto in questa inesistente socialità che si apre un grande varco il distanziamento sociale che la pandemia suggerisce. Domandiamoci in quanti e qualte volte ci siamo soffermati a pensare che, mascherina o no (a seconda della scelta ancora una volta individuale di accogliere un dovere civico, o ribellarsi in nome della propria libertà), quel distanziamento in fondo non ha cambiato nulla di importante, perché il contatto virtuale a cui ci siamo abituati persino con orgoglio, è quello che più ci fa sentire inclusi, ci dà informazioni in orizzontale e in verticale, è immediato e può essere continuo, appena interrotto da frammenti di lavoro (se lo abbiamo). Ci manca il sentirci parte di un progetto comune? E come potrebbe mancarci, dal momento che abbiamo sostituito l’idea di progetto comune con ciò che inseguono gli altri e in questo inseguimento ognuno non manca di rivendicare la propria infondata, illusoria  individualità.

Buon lavoro, counselor!

Cordialissimamente,

Giancarla Mandozzi

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