Ascolto il tuo silenzio


Ascolto il tuo silenzio

           Quando il nostro interlocutore è silenzioso, reticente a rispondere o parla a monosillabi ci induce a coprire noi quel vuoto che lui/lei crea: intensifichiamo le domande, ci esibiamo più ciarlieri di quanto siamo, persino improvvisandoci ironici e scherzosi per superare il disagio che noi proviamo e che l’interlocutore ignora o, più frequentemente, ha imparato ad accettare.

Il counselor di fronte alla persona in aiuto impacciata e restia a narrarsi, sa pro-agire, perché il silenzio è portatore di preziose informazioni nutrienti che meglio di tante parole consentono di conoscersi, e, come ogni altro specialista della relazione di aiuto è attento a gestirlo, si allena a rispettarlo, osservarlo, decodificarlo, ma non tutti gli adulti hanno consapevolezza di quanto parli il silenzio.

 

Eppure, tanti sono gli adulti, genitori, insegnanti, allenatori… chiamati a quella delicatissima relazione d’aiuto che è la relazione educativa con le giovani generazioni. È una difficile condizione, in cui si dibattono senza successo gli adulti e di cui si lamentano attribuendone responsabilità e colpe ai tempi e certamente agli adolescenti, senza neppure un sospetto che il ruolo di educatore (genitore o docente) non sia di per sé determinante per ottenere dall’adolescente comportamenti adeguati, bensì occorrono raffinate strategie comunicative implicite nee compiti di un educatore e che certo non si possono chiedere all’adolescente che con estrema fatica si apre oggi al mondo e ha necessità di essere guidato-sostenuto nella crescita.

Se osserviamo la dinamica relazionale tra educatore e adolescente, dunque, specificatamente nel dettaglio della reticenza a parlare del ragazzo (o anche della ragazza), certamente ci troveremo, in maniera ricorsiva identica, di fronte a quattro successivi item, come fossero un protocollo inevitabile.

Primo step: non appena l’adolescente gli si presenta davanti, l’adulto, con il sorriso stampato in volto e tuttavia con un linguaggio non verbale che comunica ansia –l’ansia dell’adulto, si intende– gli rivolge una domanda (meditata a lungo) diretta e asciutta alla quale non è proprio possibile sfuggire (almeno così l’adulto si pre-figura) e attende risposta con lo sguardo di chi sta già preparandosi a controbattere e alla sfida.

Secondo step: l’adolescente, che ha prestato relativa attenzione alle precise parole ma ha ben chiaro il significato che si nasconde dietro quella semplice domanda, messo in allarme dal fin troppo evidente linguaggio non verbale dell’adulto, riflette un miscrosecondo e poi sceglie tra le due opzioni più facili, su cui ha un corposo allenamento: dare una risposta monosillabica, boh,  sì, no, non so, o manifestare immediatamente un atteggiamento di insofferenza e rabbia contro tutto e tutti, perfetto diversivo per ignorare la domanda e dileguarsi con un immediato dietro-front.

Terzo step: l’adulto, inappagato da qualsiasi opzione l’adolescente abbia scelto, caparbiamente insiste a chiedere, nella convinzione che questo rispetto gli sia docuto proprio per il suo ruolo e su quella prima unica domanda ne inanella almeno quattro in una batteria a sequenza rapida, mentre si alza il tono della sua voce, scompare il sorriso, le sopracciglia si fanno un po’ più arcuate e il linguaggio non verbale comunica decisamente chiusura di un’autorità aggressiva.

Quarto e ultimo step: l’adolescente rientra/si chiude nel suo mondo e, se ancora non è abbastanza lontano nello spazio, nell’animo ha di nuovo rafforzato la sua estraneità ad ogni forma di dialogo con l’adulto e quell’adulto in particolare.

           Che cosa è accaduto, in questi tre minuti (forse anche meno)?

Nel momento in cui l’adulto (educatore) si trova di fronte l’interlocutore adolescente, proverbialmente il più parco di parole, e che malvolentieri sopporta domande che cosa è bene che metta in atto, come è importante che agisca?

È un dato di realtà che l’adolescente anche oggi, come in ogni tempo, sia geloso del proprio mondo e, benché bisognoso di attenzione, sfoderi quasi sempre un atteggiamento scontroso e non collaborativo e tuttavia il lamento corale di genitori e docenti, in sintesi, è questo: non c’è dialogo con gli adolescenti, mutano stato d’animo all’improvviso, cercano amicizia e confronto solo con i loro coetanei, anziché confidarsi con l’adulto e affidarsi a chi disinteressatamente altro non vuole che il loro Bene e avendo esperienza può aiutarli a crescere.

Se l’adulto è convinto di questo e nutre certezza che la sua esperienza di vita lo qualifichi come persona adatta a guidare l’adolescente, siamo molto lontani da qualsiasi forma di possibile dialogo, in quanto gli sfugge nel modo più completo l’elemento che qualifica il proprio ruolo, l’importanza del porsi in ascolto. Forse l’equivoco nasce dal considerare l’ascolto come esercizio di comprensione del parlato, di un contenuto, del linguaggio verbale, e dunque se l’interlocutore non parla non c’è nulla che ascoltare, ma la comunicazione è fenomeno assai complesso e prevede, come ci ha edotto Paul Watzlawick  (Pragmatica della comunicazione, ’67) comunque sempre due componenti: il contenuto e la relazione; dunque ascoltare non può significare solo comprendere le parole dell’interlocutore, occorre prestare attenzione al linguaggio paraverbale e non verbale che ne determinano insieme il significato complessivo (con le seguenti illuminanti percentuali: il linguaggio verbale incide nella comunicazione solo per il 7%, il linguaggio paraverbale il 38% e non verbale il 55%).  Potremmo anche aggiungere che frequenti sono poi i fraintendimenti che si ingenerano, a seconda del punto di vista, di come i soggetti coinvolti nella relazione interpersonale gestiscono le dimensioni della comunicazione e, se diverse, impediscono di dirimere chi abbia ragione e a chi si possa attribuire il torto perché ognuno in effetti ha giustificazioni per restare fedele ad una diversa dimensione con cui decodifica il messaggio dato (si veda il quadrato di Schultz Von Thun con le quattro orecchie della comunicazione: contenuto oggettivo, blu; relazione, colore giallo, che cosa pensa l'altro di me; rivelazione di sé, colore verde; appello, effetti richiesti, colore rosso).

In questo contesto e a causa di questa evidente complessità comunicativa, è essenziale che ogni educatore sia determinato a porsi come obiettivo ineludibile:  ascolto il tuo silenzio.  Così, lo scenario che si presenta alla nostra immediata immaginazione è completamente rasserenato: l’adulto, consapevole che l’adolescente per sue personali fragilità e per l’età stessa della contraddizione che sta vivendo, paventa la docilità nei confronti dell’altro, della norma, delle regole che sente come imposizione e privazione della propria autonomia, di quell’identità alla ricerca della quale sta annaspando, consapevole dunque della realtà, l’adulto si dispone a osservare mantenendo fermo l’unico obiettivo alto e certamente difficile di comunicare lui accettazione e sospensione di giudizio, disponibilità a negoziare, a comprendere. Un adulto che sia animato da questo intento, non si aspetta che l’adolescente sia pronto a ringraziarlo, non accampa diritti, non pretende ubbidienza in nome del rispetto che gli è dovuto in quanto genitore o docente… ma si allena a saper attendere, ad usare la sua resilienza perché resiliente impari ad essere anche l’irruente adolescente.

Ancora una volta ciò che misura la differenza tra assenza di dialogo e una efficace relazione interpersonale, è il non detto, il non manifestato apertamente, bensì qualche segnale impercettibile e tuttavia limpido e inequivocabile che l’adolescente ha percepito e gradito, molto gradito, di essere stato ascoltato pur con i suoi problemi, con le sue rabbie, le sue delusioni e anche nel suo scontroso silenzio.

Una guerra di nervi per l’adulto?

Sta a noi educatori renderla una strategia, nel rispetto della impareggiabile fatica che gli adolescenti compiono per comprendere se stessi in questo mondo che li strattona in mille direzioni e senza meta.

Cordialissimamente,

Giancarla Mandozzi

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