fuggire da …se stessi


fuggire da …se stessi

           …un tentativo reiterato quanto improduttivo, qualunque habitus abbia indossato, qualunque mirabile condizione abbia prospettato, qualsiasi ruolo gli abbiamo concesso di interpretare. La fuga da noi stessi, ingenerata da pesanti e spesso dolorose situazioni è, di necessità, destinata al fallimento. Se da chi non ci è gradito possiamo prendere le distanze, con noi stessi  comunque siamo costretti a confrontarci proprio per salvaguardare o recuperare il nostro equilibrio, il nostro bene-essere.

 

Chiederci chi siamo è esercizio impegnativo: siamo il riflesso di un noi stessi che da nascosto si fa manifesto? Narciso nel momento stesso in cui si rende edotto che l’immagine riflessa di cui si è invaghito è se stesso, ne resta come folgorato; pronuncia, forse grida Iste ego sum [Ovidio Metamorphoses] e immediatamente comprende l’impossibilità di amarla, perché l’amore è passaggio, trasferimento all’altro e, in assenza dell’altro, si compie solo il dramma di chi ama se stesso fino all’idolatria, senza mai rivolgersi e darsi ad altri. Narciso è il mito del riflesso visivo, vulnerabilità dell’autostima che rende l’individuo più sensibile alla frustrazione, alle critiche esterne,  che lo tormenta lo umilia e lo avvilisce. Oggi Narciso è la personificazione della fragilità, della giovinezza immaginata perpetua e senza autocoscienza, della mitizzazione della propria immagine fino ad innamorarsi di una immagine di sé ideale che toglie la percezione reale di sé, smarrita in una costante omologazione. Dal vuoto interiore, dalla percezione di essere inadeguati, dallo smarrimento di sé, se in alcuni prevale la voglia di esclusione e di rifiuto degli altri, la ricerca dell’isolamento che si connota quasi sempre di senso di vergogna ad esporsi ad esprimersi, più spesso accade che per queste stesse difficoltà interiori, per questo mancato equilibrio con se stessi, nasca il desiderio di fuggire da sé e la voglia di essere accettati dagli altri, in una sorta di riscatto affidato ad altri, visto che non si è in grado di avere risposte positive da se stessi. In molti seguono e inseguono una smania incontrollabile di riempire gli spazi vuoti che attanagliano i propri vissuti interiori, saturando ciò con una sovrastimolazione percettiva caotica. [Aldo Carotenuto, Bompiani, 2003]. Eppure, in un mondo, quale è il nostro, che cambia incessantemente, e con ritmo crescente la risposta più naturale e intuitiva al disagio interiore sembrerebbe essere un’altra: poiché tutto intorno a noi è mutevole e stretto tra imprevedibile e obsoleto, l’unica strada per preservare la nostra identità, è quella di metterla al riparo da ogni mutamento.

Alla domanda su chi siamo, ci rispondiamo: Siamo noi lo specchio, o siamo l’altro da noi? Qualora pure riconoscessimo in noi l’altro dal nostro sé, quanto dispendioso di energie e dubbi, sarebbe il ri-conoscerlo. Ciò che può restituirci il senso della nostra vita, o almeno di alcune nostre scelte importanti è quel sentiero irto e scomodo cha si colloca  tra due ineliminabili confini: vivere con se stessi e fuggire da se stessi. Rileggiamo, a tal proposito, alcuni brevi passi dalle pagine Illuminanti di Aldo Carotenuto:

            La ricerca di senso da ritrovare nell’articolazione della personale esistenza è il bisogno di abitare quei luoghi interiori dell’anima misti di luci e ombre rimasti sconosciuti e celati agli occhi della coscienza. Il linguaggio delle emozioni è portavoce dello stato interiore del soggetto e conduce verso sentieri enigmatici e ambivalenti, contrassegnati da gioie e travagli, da chiaroscuri non sempre definibili in modo chiaro e univoco. Mantenere viva e accesa la scintilla della partecipazione emotiva verso gli altri è la condizione primaria per la crescita psicologica di ogni individuo, proprio perché si intraprende un cammino psicologico dove il dialogo con se stessi risulta essere il pilastro portante, per il superamento di una conoscenza razionale lineare e geometrica che, privata della melodia emozionale, diventa arida e prova di senso. [Aldo Carotenuto,Il tempo delle emozioni, Pag.57]

La paura della solitudine, e del senso di vuoto e abbandono che essa produce, porta la persona ad assumere atteggiamenti volti a salvaguardare la sua identità. Eludere la solitudine significa evitare il dialogo con se stessi, significa non intraprendere la scoperta conoscitiva di ciò che realmente ci appartiene come sostanza della nostra identità. […] Recede in te ipsum è il motto con cui Seneca conferma il valore significativo della solitudine nell’esistenza umana.

Possiamo allora davvero fuggire dalla spirale della solitudine? E cancellare con essa i molteplici sentimenti di disperazione e isolamento? Se così fosse significherebbe fuggire da se stessi e misconoscere l’essenza più intima della propria personalità, annullando l’esperienza del dolore e della sofferenza. L’uomo tende istintivamente a tutelarsi dal contatto con emozioni che arrecano angoscia e turbamento, rabbia e timore, attraverso la messa in atto di strategie difensive volte a rimuovere stati affettivi che alterano il suo equilibrio. Di fronte all’emergere del senso di solitudine e di smarrimento, l’individuo mira a rivolgere la sua energia verso l’esterno al fine di trarre soddisfazione e compiacimento da distrazioni effimere, attraverso delle risposte immediate e dirette che siano in grado di offuscare le dinamiche affettive sottostanti.È per questo che molti individui hanno paura dell’isolamento e si rifugiano inconsapevoli tra le braccia delle compagnie più disparate. Saper stare soli è una preziosa risorsa […] La capacità di ripiegarsi su se stessi, sulla propria intimità, consente di scoprire aspetti emozionali e dimensioni psicologiche rimaste finora nascoste nell’inconscio. Vivere la solitudine e conoscersi sembrano pertanto essere due processi che si snodano lungo la medesima traiettoria, perché l’uno necessita dell’altro per potersi realizzare; prendere contatto con le personali emozioni, e saperle così far proprie e manifestarle, rappresenta una elevata conquista evolutiva per l’individuo, conquista che solo l’instaurarsi di un profondo dialogo con se stesso può concedere. Saper vivere con la solitudine rappresenta da parte dell’individuo la conferma di una raggiunta maturità e di una autoconoscenza profonda relativa al proprio universo interiore.[ Ibidem, selezioni da pag. 147 a pag.157].

           A ciascuno di noi che, nell’omologazione con gli altri, nella visibilità e nell’esposizione di sé all’esterno spera di aver esorcizzato/sublimato l’inquietudine interiore, Jean Paul Sartre consegna una ruvida riflessione: accorgersi di essere guardati significa anche ottenere dei rimandi rispetto a se stessi, dal momento che ogni individuo occupa uno spazio da cui non è possibile evadere e fuggire, né rendersi invisibile: lo sguardo [altrui] è prima di tutto un intermediario che mi rimanda da me a me stesso [cit. Sartre, 1943, in ibidem, pag. 225].

 

Cordialissimamente,

Giancarla Mandozzi 

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