Una storia di copioni.


ragazza che corre

Lei correva, correva, correva sempre. Sembrava dover vincere una scommessa rinnovata ad ogni passo, per questo correva. Sembrava, ma forse l’ottica era quella sbagliata, non correva per arrivare ad una vittoria, ma per sfuggire ad una sconfitta. Un fallimento che però non riusciva lo stesso a distanziare. Ogni impegno allora non era quello che sembrava, non era un tassello per costruire, no, era un’altra cosa. Così anche le ore passate a stirare i capelli o quelle spese a renderli ricci. Neppure questo era un tempo impiegato per costruire. Facendo un passo di lato appariva più come una maschera. Un trucco. Un inganno duraturo con le gambe veloci, tanto veloci da raggiungerla. Per questo lei correva, correva, correva sempre. Per questo non si fermava mai. Con nessuno.

Poi c’erano le manie, sornione ma onnipresenti, era così per il thermos del caffè, svitato ogni volta prima di versare, il collo teso per guardaci dentro: 1, 10, 100 volte, come se dal fondo nero potessero materializzarsi le ombre che la inseguivano anche di notte. Eppure sarebbe bastato fermarsi e lasciarsi prima raggiungere e poi superare; a volte, infatti, per poter vivere occorre accettare di morire. È un peccato sopravvivere soltanto. Ma lei non lo sapeva, era troppo impegnata a correre. Lui contava, contava, contava sempre. Muoveva le dita senza quasi guardare la tastiera e i numeri comparivano sullo schermo, come se fosse una magia, ma era lui che li creava, parlando il loro linguaggio silenzioso. Sembrava sapere chi era e cosa voleva, per questo riusciva a tradurre tutto in numeri.

Sembrava, ma forse l’ottica era quella sbagliata. Facendo un passo di lato appariva più come un burattinaio che si illude di dare vita ai burattini, quando in realtà è lui che respira grazie ai fili che muove. Così ogni frase fatta di parole ed ogni incontro fatto di persone, non era che un intermezzo, una pausa, un altro numero chiuso tra parentesi. Poi c’erano gli sbalzi d’umore, apparentemente reazioni a ragioni poste sempre al suo esterno: 1, 10, 100 cause diverse, ma solo due direzioni. Su, su, su fino alla vetta di risate troppo acute o giù, giù, giù verso il vuoto di un corpo intorpidito da un sonno che non ristora.

Eppure sarebbe bastato accettare di non essere infinito e lasciare questo primato ai numeri. È un peccato misurarsi con un metro che non è umano. Ma lui non lo sapeva, era troppo impegnato a contare. Lei e lui si incontrarono dove si imparava il tango, ballo dove il movimento è continuo e il controllo è tutto. Sembrava perfetto. Per tutti e due. Sembrava, ma forse l’ottica era quella sbagliata. Sì perché quando si tratta di musica l’ottica non c’entra molto e il senso da usare è un altro, pure quando si balla è così, però il tango illude, perché dal di fuori sembra richiedere la vista. Sembra, anche se in effetti la loro danza appariva più come una dimostrazione, nella quale toccarsi serviva ad avere ragione. Ed infatti ebbero ragione, diventarono un noi, un noi fatto di occhi negli occhi e di narrazioni convergenti, quelle in cui il tramonto è rosso, il cielo azzurro e la vita è una famiglia senza sbavature.

Quindi in questo senso l’ottica sembrava essere quella giusta, anche se cambiandola, facendo un passo di lato, quel noi prendeva l’aspetto di un’altra cosa, appariva più come la caparbia volontà di diventare uno e di trovare il collante adatto in una fenditura ancora tutta da riempire. Purtroppo però cercando si scava ed a furia di scavare la crepa può solo diventare più grande. In quella crepa caddero entrambi, ferendosi, pure se sembrava che non volessero farlo, così coinvolsero altri, molti altri, qualcuno dei quali suggerì di chiedere aiuto, ma a quelle parole loro diedero un altro significato, così ciò che sembrava restò la sola realtà e nessuno dei due mosse un passo di lato. Tutto proseguì: 1, 10, 100 ferite, fino a quando non trovarono la soluzione perfetta: lei correndo e lui contando. Confermando ancora una volta a se stessi che non serve a nulla cambiare. Neppure solo ottica.

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