“HO SBAGLIATO DI NUOVO!” Perché ci succede sempre la stessa cosa?

Inviato da Nuccio Salis

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Mi è successo ancora!”, “Non volevo eppure l’ho rifatto!”, quante volte abbiamo sentito dichiarazioni sulla ricaduta nell’errore.

Perché facciamo sempre lo stesso sbaglio? Perché ricorriamo sempre nella stessa situazione? Semplice e complesso al tempo stesso, fornire la spiegazione di questo fenomeno: se ciò seguita ad accadere, è perché siamo intrappolati nelle maglie del nostro personaggio. Ci siamo cioè identificati in un ruolo avulso dalla nostra verità interiore, e stiamo recitando a copione. Risultiamo in simbiosi con la proiezione di un Io immaginario, nella convinzione che coincida con noi. Esattamente come è accaduto con la carta di identità, documento che crea una persona giuridica che serve soltanto ad attivare una serie di procedure e transazioni economico-finanziarie che nulla hanno a che vedere con la nostra reale essenza di individui, e meno che mai con il nostro scopo esistenziale e con la nostra vera e profonda natura. Eppure, molto spesso è proprio tale finzione ad interfacciare i rapporti fra noi ed alcune organizzazioni formali. Succede la stessa cosa anche sul piano della rete interpersonale; ovvero si fa appello ad un alter ego, a cui è demandato il compito di presentarci al pubblico, di mostrare come siamo in linea con le prescrizioni comunemente condivise e le attese sociali più diffuse del momento.

 

Da piccoli avevamo il compagno immaginario, l’amicone invisibile che ci ascoltava, ci sosteneva, ci dava conforto, indicazioni e suggerimenti; da adolescenti, l’interprete di noi stessi è stato il Sé ideale, che mostrava la facciata più accettabile e in grado di creare ammirazione e popolarità. Ora, da adulti, il portavoce sdoppiato è un falso Io, su immagine e somiglianza della stessa fonte che lo ha prodotto.  È questo infatti che si incarica di introdurre l’adulto nel mondo sociale, e quindi farlo apparire sempre congruente,  curarne un’immagine rispettabile, mostrarlo come impegnato a saper attendere alle richieste comuni. Ecco perché ci si incontra e “non c’è male”, “tutto bene”, seguiti dall’inflazionato ed inestinguibile “al giorno d’oggi…”, a cui segue il vasto campionario di luoghi comuni a scelta, mentre ‘il giorno d’oggi’ è divenuto nel frattempo quello di ieri e di avantieri.

Le formule rituali verbalizzate impediscono di collassare in un silenzio raggelante e privo di contenuti. Esse rappresentano uno strumento prezioso per quando non si possono o non si vogliono approfondire le relazioni umane.

E il nostro personaggio sa come appellarsi all’uso di tali modelli preconfezionati, e gestirli nel modo più appropriato alle circostanze. Lo fa da sempre, fin da quando abbiamo imparato a fingere, quindi è molto esperto. Inoltre si è addirittura migliorato nel corso del tempo. Si è trasformato ed ha provato anche nuove maschere, ma non ci ha mai abbandonati, anzi siamo proprio stati noi a nutrirlo ed a conferirgli una marcata evidenza ed un soverchiante potere di mediazione. E noi dove stiamo, all’interno di tutto questo processo? Noi preferiamo rimanere all’ombra, rannicchiati in un angolino o nascosti dietro il paravento di questo onorabile fantoccio, partorito dalla paura di mostrarci per quello che siamo. Questa situazione, non soltanto risulta peraltro paralizzante per quanto riguarda il constatare di reiterare sempre la medesima incresciosa esperienza, ma renderà fallimentare anche ogni nostro tentativo di riorganizzare un equilibrio che restituisca armonia e piacere di vivere. 

Questa è una riflessione importante che deve essere provocata nella persona, qualora questa intenda qualificare la propria azione nella sua quotidianità, per ridarsi prospettive compatibili con le proprie idee, obiettivi, competenze, valori, strategie e percorsi. Occorre cioè aiutare le persone a concentrarsi sul circolo stereotipo inefficace che intraprendono nel goffo ed impacciato tentativo di risolvere i loro problemi. Se questo tentativo, infatti, viene seguito quando vi è ancora immaturità ed impreparazione, soprattutto nell’aver definito la reale entità e consistenza del problema, provare ad affrontarlo potrebbe addirittura aggravarne le caratteristiche, e ridimensionarlo in senso peggiorativo. Un pò come quando si desidera aggiustare qualcosa su cui non si sa come e dove mettere le mani, caso in cui saggezza richiamerebbe ad astenersi dall intervenire.

Occorre dunque sollecitare la persona ad impegnarsi in un’operazione di destrutturazione di sé, e quindi a rivedere i propri atteggiamenti, stili di vita, modelli di comunicazione, sistema di credenze, aspettative e principi. Soltanto questa esperienza autoscopica può svelare l’inganno della gabbia dorata prodotta dal personaggio artefatto, che noi stessi abbiamo costruito come risultante delle nostre proiezioni intrise di paure abnormi e contaminate da pregiudizi esterni.

In pratica, la persona va incoraggiata a rendersi conto di come il cambiamento delle proprie condotte sia risolutivo nell’arresto del processo di reiteramento e ripresentazione del problema.

È essenziale che ciascuno mediti almeno sulle 3 seguenti questioni:

 

_ Che significato ha il problema che sto rivivendo? Questa riflessione aiuta nell’inquadrare un problema all’interno di un orizzonte di senso. È un eccellente punto di partenza per andare alla ricerca di un messaggio insito nel proprio vissuto. È un modo per cogliere la ghiotta occasione di conoscersi meglio, mettere in luce le parti più ottenebrate del Sé, ridarsi vigore e riscoprire la passione del vivere nell’autenticità, affrontandone ogni controindicazione.

_ Quali sono i limiti che mi impongo per evitare il rinnovamento? Sforzarsi  invero a comprendere che molto spesso, i limiti che bloccano il progresso di sé sono autoprescritti. Ovvero è la propria forma mentis a generare lacci e laccetti che rendono disagevole il cammino evolutivo.

_ Che parte ho nel problema? La diretta conseguenza delle domande da porsi, di cui sopra, conduce a misurare quale sia il ruolo investito da noi in prima persona nella creazione e nella permanenza del problema. Ciò serve ad imparare ad assumere un ruolo attivo, per espletare il quale si deve pur sentire di poter ricevere un aiuto efficace, solido ed affidabile, e al tempo stesso di procedere con le proprie gambe, rinfrancando la propria autonomia.

 

Sembrano essere queste, in sintesi, le riflessioni, le domande ed i percorsi che potrebbero allietare la persona ad una riscoperta di sé, con la finalità liberatoria che consiste nell’affrancarsi dalla finzione (a)sociale perpetuata dal proprio personaggio interiore. Fuoriuscire dall’identificazione adesiva di un ‘altro da noi’, sembra infatti il percorso più adeguato per indicare il raggiungimento di una migliore qualità di vita, consapevolezza ed un più ragguardevole equilibrio emozionale.

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