IN COMPAGNIA DELLA SOLITUDINE. Pregiudizi (a)sociali di chi teme il vuoto e il silenzio

Inviato da Nuccio Salis

solitudine

"La solitudine non deriva dal fatto di non avere nessuno intorno, ma dalla incapacità di comunicare le cose che ci sembrano importanti, o dal dare valore a certi pensieri che gli altri giudicano inammissibili. Quando un uomo sa più degli altri diventa solitario. Ma la solitudine non è necessariamente nemica dell’amicizia, perché nessuno è più sensibile alle relazioni che il solitario, e l’amicizia fiorisce soltanto quando ogni individuo è memore della propria individualità e non si identifica con gli altri. È importante avere un segreto, una premonizione di cose sconosciute. Solo allora la vita è completa "

(CARL GUSTAV JUNG Ricordi, Sogni, Riflessioni).

 

 

Esca”, “Veda gente”, “Frequenti qualcuno” “Si iscriva in palestra”, sono i consigli più inflazionati da parte di certi addetti al sostegno della persona, i quali, dimentichi dall’astenersi a dare consigli (leggi comandi), pescano dal cilindro dei luoghi comuni quelli più diffusi nella cultura occidentale, nota per aver ignorato la dimensione dell’interiorità dell’essere umano. E così gli interventi alla persona finiscono troppo spesso per tradire il principio di unicità dell’individuo, aderendo né più né meno ai suggerimenti del passante o della dirimpettaia, i quali hanno almeno il pregio di essere gratis! In questo caso, invece, si può aver addirittura pagato per sentirsi spingere a conformarsi agli stili di vita più comuni, considerati giusti, normali, in antitesi alla modalità esistenziale che ha condotto la persona ad un consulto verso uno specialista.

Il soggetto ha avuto la sfortuna di sviluppare una particolare sensibilità, ha una sua particolare visione di mondo (“è strano”, dice la gente), ama riflettere, studiare e fare ricerche (“si fa troppe pippe mentali”, dice la gente), alla confusione e alla bolgia di una discoteca preferisce un libro da leggere nel silenzio e nella penombra della sua camera (“è antico”, lo etichetta la massa), alla folla e alle compagnie numerose preferisce la presenza di pochi ma fidati amici (“è asociale”, lo criticano subito), non ama esporsi e raccontare tutto e subito di sé, ma riserva con pudore la sua storia e si confida soltanto con pochissimi intimi (“è introverso”, lo bollano gli altri), si interroga sui grandi quesiti della vita, contempla il mistero e l’imponderabile divertendo la sua mente (“è contorto”, lo marchiano all’istante).

Chi è davvero solo? Chi dovrebbe essere aiutato? Chi si trova in uno stato di malessere, il poeta o il mondo che non comprende la poesia?

Nel racconto ‘Il paese dei ciechi’, di Herbert George Wells, il vedente che vi si era imbattuto ha corso dei seri pericoli nell’incontro con coloro che non potevano certo ammettere che vi fosse al mondo un potenziale distruttore della loro civiltà, interamente strutturata sulla cecità.

Portatori sani di diversità lo siamo un po’ tutti, ma nel Paese dei ciechi non c’è posto per chi propone suo malgrado la possibilità di sperimentare luoghi del vivere alternativi. Esso deve essere pressato alla conformità, mediante un processo di normalizzazione. E non essendo questa una legge scritta, viene rispettata e reiterata nel generale automatismo. E se non basterà la folla, mediante l’irrisione e il disprezzo, a far rientrare nel recinto il libero pensatore ispirato dal flusso della vita e della propria coscienza, ci penserà il professionista dell’aiuto, il quale, ammaestrato a sua volta ad aver paura del silenzio e degli spazi che possano produrre contemplazione e raccoglimento, non solo non capirà di aver incontrato qualcuno che lo può aiutare a cambiare mestiere o prospettiva di vita, ma si impegnerà a convincerlo che la mediocrità è l’unica strada percorribile per non pagare il prezzo di essere liberi.

L’assenza di un atteggiamento di attenzione verso la propria dimensione profonda, è quanto di più funzionale serva al mantenimento di una situazione sociale che permette di eludere il contatto con quelle parti di noi da cui si potrebbe sviluppare la coscienza, richiamandoci magari a comportamenti di responsabilità , a pensieri di natura etica, ad atteggiamenti realmente prosociali che potrebbero mettere in discussione i nostri amati privilegi materiali.

Eppure, l’appello rivolto a un professionista dell’aiuto, contiene o dovrebbe contenere un’istanza di cambiamento. Se invece la richiesta implicita consiste nel sentirsi dire che i problemi sono solo al di fuori di noi, il rischio è di compiacere questa domanda di conferma di sé in termini di conservazione, celebrando di fatto la superficialità e l’evitamento dell’ascolto di sé.

Se c’è un professionista dell’aiuto che non sia soltanto un tecnologo dell’intervento, saprà orientare la persona a sentire di avere il diritto di prendersi del tempo per se stessa, perché è da tale rinuncia che ha imparato a rifuggire dalle parti migliori di sé che ora premono per manifestarsi. Una possibile proposta consisterà nell’impegno a decontaminarsi dall’iperstimolazione esterna. Dovranno essere evitati Il bombardamento massivo dell’informazione, il rumore in tutta la sua ampia accezione, il tabù culturale della solitudine e dell’horror vacui, e dovrà essere recuperato o abilitata la capacità a creare spazi rigenerativi di sé, specialmente ricorrendo ad amare la propria solitudine utilizzata anche come espediente creativo. Sentire questa spinta a creare, in assenza di condizionamenti esterni, è cosa legittima, non è ‘roba da scemi’, come sostengono i mondani che hanno paura della vita. Si tratta di abbandonarsi a questo impulso ristoratore che la solitudine ci offre, e chi si prodiga nel supporto alla persona dovrà fare da modello su questo delicato punto, rispecchiando la legittimità circa la presenza di questa prorompente energia creativa che fa parte di tutti noi, e che viene castrata da una cultura ancora oggi soggiogata dalla logica della legge del branco, che vede nella diversità espressiva dell’essere umano un pericolo per la sopravvivenza della specie. Questo tema è ricorrente nell’esperienza dei gruppi e del confronto fra umani, e riguarda svariati campi della vita.

Ragion per cui il setting dovrà rappresentare uno spazio dove è permesso anche il silenzio, un luogo che deve rivoltare la logica esterna conosciuta, e presentarsi come un tempio che riabilita il valore dell’intimità, che rieduca il dialogo interiore. Il fine ambizioso consiste nel riqualificare quelle potenzialità e qualità umane disconosciute da un processo di massificazione organizzato in modo combinato, che vede cioè la co-partecipazione della famiglia, della scuola e dei gruppi dei pari. L’individualità oppressa deve essere liberata, ed a questa vanno affidati strumenti grazie ai quali, non soltanto può sopraggiungere a conoscersi, ma anche a seguitare il processo del divenire creativo, nonostante le forti ed incessanti obiezioni che verranno dalla collettività che non sopporta l’individualità e la percepisce come un pericolo.

Non è facile per chi intraprende il percorso dell’individuazione, restare illeso e indifferente al quotidiano lancio dei sassi al proprio indirizzo. Ecco perché, a mio avviso, ci si può nobilitare soltanto quando si giunge a sentire come sia meglio diventare vedenti seppur derisi, piuttosto che essere accettati rimanendo ciechi. A fronte di prevenute obiezioni, è bene sottolineare come l’individualità a cui si fa riferimento è ben distinta dall’individualismo, priva invece di connotazioni sociali in senso collaborativo ed altruistico. Si tratta piuttosto di sostenere il principio di divenire se stessi, che è da sempre la più grande trasgressione e il più aberrante dei peccati non scritti e dei divieti non legiferati.

Tale compito evolutivo è il focus centrale del senso di ciascuna cosa che vuole essere autentica e vincente, affinché un giorno ciascuno impari, per esempio, che solitudine non significa isolamento, e che ripiegamento su di se non significhi necessariamente patologia. La solitudine potrebbe rivelarsi proprio come un’alleata e un’amica preziosa, grazie alla quale possiamo ricentrarci su noi stessi, bonificarci del ciarpame esterno dovuto a influenze nefaste e riallinearci in un percorso che ci appartiene e che ci rappresenta.

La solitudine è un’arma rivoluzionaria, propria od impropria dipende dai punti di vista e da quale parte si sta. Essa è lo strumento che solo l’individuo libero può permettersi, cioè colui che è capace di digiunare da tutto il ginepraio molesto che inquina il Sé, che contamina le nostre menti con riflussi invasivi, con messaggi e condizionamenti  negativi. La solitudine è lo stratagemma a volte necessario, e per la quale siamo già programmati per ristabilirci. La perdiamo per strada, insieme alla creatività, al silenzio, all’ascolto interiore, all’attenzione verso l’altro, all’Ego-Bambino.

Tutto il bello viene sfoltito, per poi ritrovarci a domandarci per quale irragionevole mistero ci sentiamo incompleti, delusi, frustrati… sbagliati!

Perorerò la causa della solitudine, fra il lancio di pietre, fortificando quel motto che declama: “Voi ridete perché sono diverso da voi, io rido perché siete tutti uguali

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