Vero Sè e autenticità. Percorsi di riabilitazione all'esistenza

Inviato da Nuccio Salis

mascheraDiverse espressioni riportate dalle più disparate correnti di pensiero di analisi psicologica, si riferiscono a concetti e modelli che tentano di descrivere quelle sovrastrutture atte a ricoprire e nascondere la reale espressione del Sé. Termini come alter ego, copione, corazza, Persona, maschera, si rivolgono a manifestazioni non autentiche dell’individuo, che imprigionano il medesimo all’interno di confini di espressione rigidi, limitanti e prevedibili, considerati fra l’altro veri e propri fattori di rischio per la tenuta e la tutela del generale benessere psicofisico.

 

Diversi studiosi affiliati alle discipline umanistiche non hanno potuto fare a meno di teorizzare e constatare la forza soverchiante di tali sovrastrutture. Pur partendo da paradigmi differenti, si assiste ad un risultato equifinale, dal momento che varie ricerche mettono in evidenza la rilevante discrepanza fra una realtà ontologica interiore di natura squisitamente autentica e genuina, ed una sovrapposizione generata dapprima dalla realtà sociale e successivamente interiorizzata dal soggetto. A tutti gli effetti, i condizionamenti, siano di natura formale che informale, volontari e programmati o meno soggetti al controllo, foggiano per ciascuno un abito mentale rivestito della cornice etica e dei contenuti valoriali appartenenti alla collettività dentro cui l’individuo cresce e compie la sua esperienza formativa. Si determina così un processo di copertura che consiste nella costruzione di sovra-impalcature identitarie che ricoprono il nucleo di essenziale autenticità dell’individuo. Strato dopo strato, a seguito di una progressiva costruzione di schemi ispirati al clima culturale dell’ambiente di riferimento, il cuore della vera natura individua viene celato alla persona stessa che ne è custode e portatrice. E con il suo occultamento, ne viene al tempo stesso oscurata la visione di se anche come realtà microcosmica di sostanza divina, speculare all’Intelligenza Macrocosmica Onnicreante. Il fatto stesso di irridere a questa verità è segno abbondante di essere nascosti a se stessi, e di aver perduto, con la verità di se, la memoria dell’Eterno e dell’Infinito.

Tale oblio è funzionale a un esercizio di controllo massificato attraverso l’immissione di bisogni inutili, indottrinati alla moltitudine impecorita, che li autoalimenta generando un circolo vizioso fra disagio e soddisfacimento fittizio che genera il disagio.

La ferita primaria, necessaria alla perdita di sé, viene inflitta proprio dall’ambiente deputato ad accoglierci in modo protettivo ed amorevole. Una sorta di rito inevitabile, una circoncisione dell’anima che ci consegna alla folla, al pari di tutte le altre matricole. Seppur con un discutibile attributo deterministico, lo psicanalista Alfred Adler ha sempre equiparato tale ferita a un vissuto di inferiorità, come base costitutiva della formazione di un “Io fittizio”; ovvero una struttura compositiva di se non adatta alla propria vera natura, castrata dal peso di qualcosa considerato dominante e schiacciante rispetto alle proprie capacità. Sotto tale fitta selva, che funge da contraffazione dell’Io, si nasconde il Sé creativo, che secondo Adler è la migliore espressione di se.

Sull’origine precoce di tale condizione, generante sentimenti e vissuti di autosvalutazione, si accordano anche le riflessioni del filosofo George Gurdjeff, il quale afferma che vi è una significativa differenza fra “essenza” e “persona”; in quanto la prima rappresenta la natura primigenia, antica ed autentica di ciascuno, a cui si contrappone la seconda, di derivazione socio-culturale, costruita da modelli educativi che creano una scissione intrapsichica fra verità di sé ed aspettative sociali, facendo maturare nel bambino vissuti di colpa e di vergogna, rendendolo insicuro, intimidito, compiacente e soggiacente in modo passivo alle richieste degli adulti.

In vero, la mancata riconquista della natura del proprio autentico Sé, coincide proprio con la condizione del vivere sentendo dentro sé qualcosa di distonico a cui non si riesce a dare un nome o una spiegazione. E questo vissuto esperisce o sfoga sovente in manifestazioni di disagio psicologico, per diversi livelli di disagio, a seconda dei fattori che vi concorrono, fra quelli personali e quelli ambientali.

Se non si è se stessi, in parole semplici, si rischia di esperire un vissuto di estrema afflizione, apparentemente senza alcuna ragione apparente. Ci si può sentire sbagliati, malati, non degni, non portatori di valore, vulnerabili, e facilmente ci si costruisce un ruolo sociale ed interpersonale che stabilizza e cronicizza tale condizione, nel tentativo di contenere i colpi di coda del vero Io che reclama riconoscimento. È un conflitto intrapsichico che apre le porte della dipendenza, da qualunque cosa che taciti l’emersione ritenuta colpevole da parte del vero Io. Eppure farlo riaffiorare, fino a comprendere che si tratta di rincontrarsi, riconciliarsi con se stessi, è la meta agognata di chi ha voluto cogliere le intuizioni, le sincronicità e i segnali di soccorso inviati dal vero Io.

Prestare, anzi direi regalare ascolto alle istanze del Sé verace, ha il valore di riprendersi la propria vita, la propria dignità, il proprio valore, il proprio diritto a vivere godendo di spazi di felicità. È il vero nucleo essenziale intorno a cui gravita tutto il discorso sulla promozione della salute psicologica. Ce lo ricorda in modo particolare lo psicanalista Donald Winnicott, che distingue fra “Vero Sé”, spontaneo, genuino e creativo, e “Falso Sé”, concepito come difesa reattiva a un ambiente che non si è mostrato capace di accogliere ed empatizzare coi bisogni affettivi del bambino. Winnicott elenca 5 possibili rapporti fra “Vero Sé” e “Falso Sé”, determinando un relativo gradiente di disturbi atti a turbare l’equilibrio di cui è portatore il “Vero Sé”. Tali tipologie di rapporti sono:

a). Stato patologico: Il “Falso Sé” invade per intero tutte le aree espressive della persona, sostituendosi completamente al “Vero Sé”. Fa decisamente pensare ad un virus dalla forza pervasiva schiacciante.

b). Stato di confine: il “Falso Sé” opprime il “Vero Sé” impedendogli di esprimersi, ma concedendogli uno spiraglio di visibilità osservabile nel disagio e nella malattia.

c). Stato della sofferenza: il “Falso Sé” adempie nel concedere frammenti sempre più evidenti al “Vero Sé”. L’individuo sperimenta ambivalenza e sofferenza, e può proteggere il “Vero Sé” scegliendo di annullarsi fisicamente.

d). Stato di fragilità: il “Vero Sé” non raggiunge del tutto la maturità nel concepirsi come realtà dinamica, eterogenea ed unitaria al tempo stesso. Il soggetto sperimenta un senso di vulnerabilità e poca assertività.

e). Stato di salute. L’individuo accede a un livello di consapevolezza circa l’esistenza ed i processi di costituzione del “Falso Sé”. Lo riconosce e lo distingue dal “Vero Sé” e lo utilizza intenzionalmente a seconda delle richieste ambientali.

Forse, potrebbe essere aggiunto ancora un livello ulteriore: lo Stato di trascendenza: quello in cui il “Vero Sé” scalza ed esilia una volta e per sempre la sovrastruttura egoica fittizia. Arrivare a tale livello è probabilmente una condizione che coincide con una vera e propria rivoluzione, la più devastante e silenziosa delle più rumorose rivoluzioni: quella di essere se stessi; il vero tsunami di cambiamento in grado di rovesciare poltrone e Palazzi, nonché il più grande banco di prova dell’uomo virtuoso.

Infatti, come chiosa il filosofo fondatore del taoismo: “Chi conosce gli uomini è saggio, chi conosce se stesso è illuminato”.

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