Chi decide per chi? Riflessioni sulla maturità interiore del counselor

Inviato da Nuccio Salis

decidereCosa significa prendere una decisione? Quali processi vi sono implicati? Sono queste domande destinate ad espandere la ricerca intorno a un tema così complesso. Un flusso di pensieri, emozioni, percezioni e sentimenti si correlano fra loro, intercettate anche da quel panorama di valori, tratti di personalità, abitudini, motivazioni, credenze personali, che contribuiscono a delineare la ricchezza di tale fenomeno. Spesso siamo soggetti ad operare scelte immediate, senza una necessaria ponderazione; per mancanza di tempo, infatti, è possibile ritrovarsi ad effettuare scelte nell’emergenza, a produrre considerazioni e conseguenze comportamentali che richiedono risposte subitanee. Quando invece la variabile temporale verte a nostro favore, la decisione può essere assunta riflettendo, concedendosi un adeguato spazio di elaborazione per sviluppare congetture, ipotesi, meditare sulle aspettative, immaginare le conseguenze. Vi sono quelle situazioni nelle quali la scelta deve essere negoziata con una o più persone, se non anche condivisa nella moltitudine, attinente dunque, in questo caso, all’area delle competenze in merito alla gestione dei conflitti.

 

Inoltre, la sfuggente ed incontrollabile variabile del caso, della fatalità, dell’imprevisto, non permette di poter contare sull’infallibilità della decisione assunta. Non abbiamo cioè la certezza assoluta circa le conseguenze che la nostra scelta implicherà. Quello che possiamo fare, allora, è accettare che esista una zona del non controllabile e non prevedibile, che magari metterà alla prova le nostre capacità reattive in termini di adattamento, creatività e resilienza, offrendoci forse maggiori occasioni di apprendimento, evoluzione e crescita, più di quanto stessimo cercando. In breve, non sempre cercare di arginare l’imprevisto è qualcosa da premiare nell’ottica di un discorso cautelativo e preventivo. La non totale gestibilità degli eventi è qualcosa di destabilizzante da ammettere, soprattutto per un operatore dell’aiuto che condivide col suo interlocutore questa stessa paura.

Crescere nella stessa cornice culturale, respirare la stessa aria viziata e intrisa di dualismi e disprezzo per l’esaltazione della vita, può farci soltanto diventare guide cieche per non vedenti. Occorre una formazione che trascenda, non che trasformi ma superi e distrugga, addirittura, una patologia diffusa quale è la sindrome del controllo: quella che sviluppa comportamenti di gelosia, simbiosi, affezione morbosa, invidia, moralismo sessuale, iperprotettività. Fino a che l’operatore dell’aiuto non sarà guarito ed evirato da pestilenziali virus come quelli elencati in precedenza, non solo non potremo accedere alla felicità, ma chiuderemo il cancello anche a chi vi vuole entrare. Ecco perché quando si parla di accettare incondizionatamente il mondo esperienziale del nostro prossimo, non si sta affermando una cosa banale, al contrario ci si sta assumendo una responsabilità oltre ogni modo coraggiosa e rivoluzionaria, perché contrasta coi modelli antisociali diffusi per la maggiore nell’era della comunicazione.

Siamo pronti? Siamo ancora dualiani? Non abbiamo ancora raggiunto una visione globale, olistica, non soltanto teorica ma anche applicativa, agita nell’esperienza? Allora, forse, sarà un caso di fare un passo indietro, se è così. Naturalmente è un’autocritica condivisa.

Formarsi come counselor, è mia convinzione del tutto soggettiva, implica infatti una sorta di attraversamento a un portale dimensionale di nuova concezione, e tanti, umilmente ed onestamente, riconoscono di non essere ancora pronti. Il cambiamento interiore può non essere sopportabile a chi non era già in cammino verso qualcosa di nuovo, a chi non si poneva domande e non stimolava nessuna riflessione. Chi invece vibrava già dentro una riscoperta luce interiore avrà utilizzato il bagaglio di conoscenze pratico-teoriche come mezzo efficace di sostegno per se e per gli altri. Questa importante parentesi è importante per trattare il tema del sostegno e dello stimolo a prendere decisioni.

Uno degli automatismi riscontrati quasi sempre nelle persone è l’attitudine a dare subito suggerimenti, a offrire la soluzione illuminata, a sostituirsi all’altro concedendo deliberatamente opinioni non richieste, giudizi, valutazioni ed ipotesi salvifiche ed inopinabili. È il virus che la maggior parte degli aspiranti counselor in formazione abbiamo dovuto affrontare. La sua continua ed incalzante manifestazione è di una ricorrenza puntualissima.

Aiutare una persona a prendere una decisione dal sapore definitivo, o cosi ritenuta secondo la visione soggettiva dell’utente, significa avere in consegna un compito piuttosto serio e delicato. Evitare di caricarsi inconsapevolmente la responsabilità di quanto matura dalle conseguenze di agire quella scelta, è uno degli obiettivi da non perdere mai di vista. Segare lacci e lacciuoli dal ruolo del Salvatore che ci siamo dipinti è un dovere da compiere, a favore non soltanto della professionalità quanto soprattutto del proprio benessere personale. Ma forse, lo sottolineo con la massima discrezione e con intenti di confronto, qualcosa continua ad agire se i virus hanno fatto le uova e si sono dischiuse. Mi riferisco a un possibile atteggiamento fideistico nei confronti della pianificazione oculata e razionale di un percorso decisionale.

L’approccio positivista verso la programmazione misurata in modo scrupoloso, dove termini come controllo, gestione, previsione, conseguenza, accertamento, verifica, avvicinano un progetto decisionale a un piano di marketing aziendale, forse rischia di ridurre la figura del counselor ad una sorta di esecutore di funzioni dettate dalla religione della pianificazione strumentale. Una rotta che abbia un senso, certamente, deve esserci, ma il soggetto all’interno di tale processo è un decisore attivo, con capacità e qualità che personalmente non vedo molto comodo dentro l’ingranaggio di una task analysis, dove puntuale e preciso percorre come un automa i suoi micro-obiettivi. Non rischia, forse, tutto questo, contemplato da una certa letteratura, di aborrire proprio quella scintilla estemporanea spesso ignorata, per cultura, ma che invece rivela spesso la sua forza risolutrice? Mi riferisco per esempio alla scossa improvvisa ed inarrestabile dell’insight, che nulla chiede e nulla pretende, e con la sua spinta vitale argina e tracima le insolenti barriere della razionalità.

Esiste, in sintesi, un ampio spazio di pensiero e di azione che può denotare un’immensità di alternative fatta di opzioni, ragionamenti, sentimenti, esperienze e vissuti, tutti a servizio del processo decisionale che è libero di accettare una certa dose di imponderabilità, una dimensione del non-controllabile che entro una certa misura autentica anche il valore della vita come ricerca e sperimentazione, allo scopo di generare anche nuovi contenuti e strutture dinamiche di apprendimento.

Infatti, pensare di facilitare il percorso decisionale, confidando nella programmazione dello stesso, come strumento riparatore o esclusore dell’errore, è forse un bel po’ presuntuoso e fortunatamente irrealistico. Se non fosse così, cioè in assenza di tale imprevedibilità, allora recarsi dal counselor sarebbe come andare dal chiromante; dal momento che le due figure, sprovviste di un ufficiale riconoscimento, hanno pure qualcosa in comune.

Ma per buona sorte intervengono variabili assai sfuggenti, che sono identificabili nei processi affettivi ed emozionali. Tali fattori, infatti, ci riportano sul piano di realtà, restituendo quella cornice di perfetta imperfezione che spetta all’essere umano proprio come elemento caratterizzante del suo innegabile valore. Decidere esclusivamente col raziocinio, dunque, diventa un’illusione, oltre che una teoria sbilenca e bislacca.

Sono conclusioni che trovano adesione ed ispirazione nella teoria della decisionalità affettiva, sviluppata dal noto filosofo e psicanalista Franco Fornari. Il modo con cui prendiamo le nostre decisioni, giuste o sbagliate che si rivelino, dipende in gran parte da unità affettive elementari costruite in forza dei modelli comunicativi con cui siamo stati formati, e che rappresentano il modo con cui abbiamo interiorizzato i significati delle esperienze relazionali. Fornari chiama “coinemi” tali contenitori, e li descrive come concezioni di base che se da una parte risentono degli archetipi generali, d’altra parte sono anche riempiti in modo dinamico dei significati che passano attraverso i confronti interpersonali vissuti dalla persona durante la sua vita. Essi, comunque, costituiscono la vera bussola di orientamento delle decisioni che un individuo desidera o sente di intraprendere nel corso della sua carriera esistenziale. La linfa di cui sono intrisi è l’affettività, e l’aggregazione complessiva di tali elementi viene chiamata da Fornari, senza alcuna esitazione, anima. Essa sarebbe dunque guidata da un codice di significazione, di sostanza emozionale, descritto come un sapere inconscio a carattere filogenetico, un codice vivente che già agisce su un piano di scelte possibili, perché vi sono inscritte modalità di azione già facenti parte della nostra vera natura.

Lo spessore tematico di tali considerazioni è connaturato alla necessaria propensione verso una attenta, sommessa e rispettosa accoglienza di quel linguaggio sotteso, tacito, frequentemente svalutato o ignorato da una deriva meccanicistica di un certo illuminismo maniacale della progettazione e degli algoritmi.

Si tratta di rivalutare questo linguaggio, smettendo di ammutolirlo anche per via delle proprie paure, e ridare voce e dignità all’unica depositaria della verità interiore individua: l’anima.

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