Superare la paura di sbagliare. Immagine di se e rapporto con l’errore

Inviato da Nuccio Salis

sbaglioQuante volte abbiamo sentito pronunciare l’espressione “chissà cosa sbaglierò”, da un amico, un famigliare, un collega, noi stessi, di fronte a una futura inedita esperienza. La paura di sbagliare caratterizza molto spesso il nostro rapporto con l’esperienza che ha a che fare col nuovo. L’inizio di un’attività che non conosciamo, per esempio, implica quasi sempre preoccupazioni legate sia ad una percezione di non efficacia di se che ad aspettative circa un fallimento di prospettive che viene immaginato come inevitabile. E si va cercando una sorta di soluzione o formuletta magica che possa aiutare a prevenire l’errore e far andare tutto verso la giusta rotta.

Credo che tutto questo accada per via di un cattivo rapporto che abbiamo con l’errore. Nella nostra cultura, l’errore sembra non essere accolto mai come occasione di apprendimento, di crescita e di scoperta. Esso non è visto come un possibile pregevole strumento di esplorazione e ricerca. Eppure è riconosciuto, fra i modelli dell’apprendimento, un percorso per “tentativi ed errori”. Nonostante la bella teoria, non credo che molti di noi siano stati educati ad avere un buon rapporto con l’errore. Fin da piccoli, ogni nostro piccolo errore può essere stato occasione più o meno diretta e consapevole di svalutazione sulla nostra persona.

Siamo cioè stati abituati ad associare l’errore alla persona, ovvero, ad attivare dentro di noi automaticamente il meccanismo secondo cui il fatto che “ho sbagliato”, equivale a dire che “sono sbagliato”. I nostri errori sono inoltre, per esperienza, associati agli episodi della vita scolastica, quindi soggetti a un voto, a una valutazione, sottoposti a verifica e giudizio. Se a tutto questo ci aggiungiamo le “spinte” psicologiche che diversi genitori fanno ai loro figli, inducendoli ad essere perfetti, efficienti e competitivi, sempre “all’altezza di”, allora si capisce come il rapporto che abbiamo strutturato nei confronti dell’errore si ammanta incredibilmente di angosce che ci fanno dubitare del valore della nostra persona, ci sentiamo assaliti da ansie di prestazione e soprattutto alimentiamo fantasie di giudizio svalutante da parte degli altri, magari suscitando vissuti di abbandono e disconoscimento.

Questa è anche la ragione per la quale siamo poco propensi a perdonarci un errore, figuriamoci farlo nei confronti altrui. Il giudice interiore da sempre un voto, emette sempre una inappellabile sentenza, spietata su noi stessi ed anche per gli altri. Questa forma di rigidità mentale costituisce un vero e proprio “virus”, inteso come struttura di pensiero che contamina anche le emozioni ed i comportamenti, chiudendoci ad esperienze vitali maggiormente costruttive e legate all’evoluzione personale.
Ho provato ad identificare una approssimativa serie di modalità attraverso cui entriamo in relazione con l’esperienza dell’errore. Ho cercato di associare al processo di gestione dell’errore la corrispondente forma del pensiero. Essa si articola come segue:


_ Intellettualizzazione (“IN CHE MODO NON POSSO SBAGLIARE”): Per scongiurare la paventata ipotesi di errore si cerca di fare affidamento a una sorta di scienza esatta dell’errore, una fantomatica “sbagliologia” che ci darebbe strumenti per prevedere, controllare e gestire il margine dell’errore. L’illusione di poter monitorare l’errore rende semiciechi rispetto a tutto quel coacervo di fattori che non sono del tutto soggetti a controllo. Eventi accidentali ed accadimenti estemporanei mettono in ridicolo l’illusione logico-razionale del controllo dell’errore, richiamandoci invece alla necessità di sviluppare atteggiamenti creativi, flessibili e divergenti, che non solo non scappano dall’errore, ma lo ricercano per arricchire l’esperienza.
_ Perfezionismo (“NON DEVO SBAGLIARE”): L’errore destruttura l’immagine soggettiva di sé, e mostra la facciata di realtà che è fatta non di perfezione ma di perfettibilità, che può alimentare il desiderio di crescere e migliorare. Ma ciò non accade se l’errore si interpola nella forma mentis secondo cui ci si sente persone di valore “a condizione che”; ponendo cioè un vincolo, aprendo spiragli di vulnerabilità e di autodenigrazione.
_ Autosabotaggio (“POSSO SBAGLIARE QUINDI LO EVITO”): Le persone che boicottano loro stesse senza nemmeno averne consapevolezza devono avere per davvero una terribile paura dell’errore. Sbagliare non è umano, secondo questa forma mentis, ma una catastrofe che può essere evitata soltanto mancando a tutte le occasioni di confronto con la realtà che possono disvelare limiti o incapacità personali. Quindi ecco attivare dimenticanze, atti mancati, improvvisi incidenti e imprevisti contrattempi.
_ Percezione di autoinefficacia (“SBAGLIERO’ SICURAMENTE”): C’è chi si aspetta l’errore non avendo fiducia nelle proprie capacità e competenze nell’affrontarlo.
_ Profezia avverata (“LO SAPEVO HO SBAGLIATO!”): È una conseguenza della precedente. Chi commette l’errore può darsi ragione almeno su una cosa: sapeva che sarebbe successo, e ciò conserva e rinforza l’identità di se autoetichettata come immagine di persona non competente e non capace. È una forma protettiva e non costruttiva di conferma di se, anche se appunto in termini squalificanti.
_ Decentramento depotenziante (“LE CIRCOSTANZE MI INDURRANNO ALL’ERRORE”): Della serie quando risulta troppo faticoso pensare di non avere la forza o la capacità, allora si imputano all’ambiente le eventuali cause di fallimento. Può essere la forma mentis di chi non può gestire l’impatto svalutante dell’errore, e per rigidità mentale non sa riconoscersi responsabilità e vedere appunto l’occasione formativa insita nell’errore.


Anche nel gestire l’errore, dunque, tutto sembra che possa partire dall’immagine di sé, non tanto dall’ottimizzazione dei risultati. A volte non bastano infatti le vittorie ed i successi a dimostrare ad un individuo che può guardare a se stesso come persona di valore. Dovremmo molto probabilmente imparare innanzitutto a fare un’opera di disidentificazione fra l’Io e l’errore, cioè imparare a pensare che se sbaglio “io non sono l’errore”, ma “ho commesso un errore”, e lavorare sulla ristrutturazione di comportamenti maggiormente adeguati e costruttivi, imparando certamente anche a valorizzare il coronamento dei propri obiettivi, ma tenendo presente che l’amore che devo a me stesso è un atto puramente incondizionato.
 

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