Counseling indiretto e matrici di svalutazione. Quando il problema non è un problema

Inviato da Nuccio Salis

problema dubbioComprendere che possiamo assumere decisioni, contare su noi stessi, sviluppare le nostre risorse, potenziarci, evolvere, sono tutte questioni che possono suonare come una minaccia a chi è abituato a non farsi carico di se. Il concetto di responsabilità, che unifica tali condizioni, rappresenta una destabilizzante intimidazione che mina alle strutture stereotipe di chi non ha l’abitudine a prendersi cura di se. Avere un atteggiamento rigido e conservativo svilisce i processi creativi e atrofizza il soffio vitale presente dentro ciascuno di noi. Quanti vissuti di disagio sono prevalentemente la conseguenza di un approccio alla vita che ne rifiuta il lato esplorativo. La vita è sperimentazione, arricchimento interiore, un frammento caduco utile al ritorno nell’Infinità. Avere a disposizione un “giocattolo” come il cervello e scegliere di farlo avvizzire passivizzandolo o nutrendolo di stimoli nocivi quali i falsi bisogni indottrinati dal sistema, credo sia quanto di più dissacrante alla vita e oltremodo mortificante per la dignità di cui l’essere umano è portatore. Un vero e proprio delitto, mi sentirei di affermare. Ben peggiore dell’ annullamento corporale e materiale di se.

Eppure, vivere nella sufficienza, nella superficie, nella mediocrità, cullati da falsi valori e dalla deleteria dottrina del materialismo, sembra proprio essere il grembo dentro cui la maggior parte delle persone tende a ricercare tale condizione. Una condizione che conduce inevitabilmente al disagio interiore, a un malessere esistenziale che si esprime con un tragico senso di vuoto che vuole a proposito fungere da campanello di allarme per una urgente e necessaria rivoluzione. Insistere nel voler conservare la propria vecchia ed inutile pelle e i propri schemi obsoleti di pensiero diventa l’epicentro della propria sofferenza. Ed essa diventa insopportabile se non si fa lo sforzo di comprendere che la chiave di tutto sta nel cambiamento. Si constata, invece, dalle vicende di vita quotidiana, come la moltitudine alimenti la propria matrice di sofferenza seguitando a rifuggire dai propri autentici bisogni, irridendo e ridicolizzando proprio ciò che li renderebbe maggiormente liberi, ovvero una nuova e soprattutto aperta e dinamica cornice di valori e di concetti.

La fuga dalla libertà e dalla verità che ne consegue, autoalimenta tale vissuto di disadattamento generale, rendendo spesso l’essere umano quella macchietta grottesca e tragicomica che si esprime secondo un concentrato di nevrosi e di confusione distruttiva. In questa condizione, purtroppo, con lo spirito sopito e lobotomizzato, è davvero difficile immettere e far fruttare stimoli rigenerativi. È tuttavia il tentativo che ci poniamo dal momento in cui assumiamo il ruolo dell’helper, all’interno di una relazione di aiuto. Di certo, il primo passo sarà sempre quello di accogliere ed ascoltare il disagio, sentirlo alla luce di come l’altro lo vive, lo gestisce e lo interpreta. Prima di tutto entriamo dunque dentro l’orizzonte rappresentativo del nostro prossimo, ed accettiamone il limite, la difficoltà, le ragioni per le quali esiste una ostile resistenza all’espansione della propria coscienza. In primissima battuta, infatti, occorre innanzitutto inquadrare la natura del problema alla luce delle possibilità e delle coordinate interpretative della persona che stiamo accogliendo. Non possiamo dare per scontato che per la persona che incontriamo all’interno del rapporto strutturato di aiuto sia un individuo in grado di cogliere l’entità e la portata del problema. Avendo coscienza di questo, in primo luogo, eviteremo atteggiamenti inutilmente paternalistici o moralizzatori.

Il problema di non capire il problema è la questione che può generare abnormi difficoltà sia nel professionista facilitatore del processo dell’aiuto che nell’appellante verso cui il primo indirizza il suo servizio di ascolto e presa in carico. Questa situazione è facilmente riscontrabile laddove esiste la possibilità di rivolgersi ad un utenza indiretta verso cui prestare la propria opera di aiuto. In una scuola, per esempio, o in un luogo di lavoro, è possibile trovarsi nella situazione di dover accogliere persone che non hanno preso di loro iniziativa il proposito di incontrarci. A scuola sarà frequente occuparsi di adolescenti vittime di bullismo o gli stessi persecutori, ragazzi con marcati segni di disadattamento nella vita scolastica, con scarso profitto, demotivati nello studio, disturbanti, oppositivi in modo non costruttivo, violenti, incapaci di considerare e rispettare le regole dell’Istituto e della convivenza sociale. Analogamente, sui luoghi di lavoro il disagio esperito dagli adulti può manifestarsi nel fare o subire il mobbing, avere scarso rendimento e insufficiente produttività, cadere nella demotivazione, fare assenze e malattie frequenti, confliggere in modo non costruttivo con colleghi o superiori, boicottare il lavoro altrui.

A tali comportamenti, spesso, non sempre è associata la consapevolezza di essere portatori di bisogni frustrati, derisi e vilipesi da un’esistenza che non si vuole ammettere sia da rinnovare, poiché il costo che ne deriva sarebbe un prezzo troppo alto da pagare. I soggetti che si trovano a questo primo livello rifuggono l’ipotesi di un pensiero e uno stile di vita alternativo rispetto a quella all’interno della quale sono confinati, una gabbia protettiva e rassicurante dentro la quale, con la loro più o meno avvertita complicità, ne sono dei felici schiavi. Su questo primo livello di autosvalutazione, come ben ci spiega lo psicologo transazionale Jaqui Schiff, la persona è dominata da un piano di svalutazione che, includendo la negazione dell’esistenza di un problema, disinveste se stesso dal compito impegnativo che lo porterebbe ad essere un individuo libero e consapevole, sottratto al giogo del suo falso profilo identitario e delle sue auto attribuzioni inautentiche cioè incapaci di cogliere la vera essenza di se ed emanciparlo in modo assertivo.

È da questa presa di coscienza che dipende la qualità della propria vita e la promozione del proprio ed altrui benessere, di quel benessere che non è trovabile in nessuna palestra d’avanguardia o piscina riscaldabile, ma risiede in quella dimensione essenziale invisibile agli occhi che coincide con noi stessi: l’anima. Impariamo ad ascoltarla.

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