Contestualizzare per comprendere


Contestualizzare per comprendere  

 […] Un secolo [il 900] da pensare e ripensare nel suo insieme, nella sua traiettoria,   e i suoi approdi. E un secolo pieno di contraddizioni: il secolo dei totalitarismi e della democrazia, del capitale monopolistico e del welfare state, delle masse e delle élites, degli integralismi e della globalizzazione. Un secolo che proprio per questo è apparso "innominabile", ovvero non riducibile a un solo slogan, ma da comprendere nel suo volto polimorfo e nel suo iter carico di contrasti, pertanto caratterizzabile come il secolo "doloroso", "smisurato", "di utopie e di disincanti" al tempo stesso, "immateriale" per l'avvento della civiltà delle immagini e dell'informazione, "nazionalista" e totalitario, ma anche "futuro-dipendente" (cfr. AA.VV. '900: un secolo innominabile, '98).

 

Tale secolo, come ha sottolineato Mariuccia Salvati, sta tra due crisi di fine secolo: l’Ottocento e il Novecento; due crisi che denotano sfiducia e inquietudine, declino della speranza e apertura alla "crisi delle certezze", se pure in forme diverse: europea e occidentale la prima, planetaria la seconda, che si affaccia su quel Duemila “triste" che di fatto non ha smentito le previsioni già nel suo avvio. Un secolo, allora, di ripensamento e di rifondazione nella cultura, nella politica, nell'economia, ma che ha prodotto nel suo cammino enormi problemi nuovi, capaci di portare la stessa storia dell'uomo alla sua distruzione definitiva.

Un secolo capolinea, allora? Sì, retrospettivamente lo è stato, anche se ha continuato ad essere un secolo di crescita, di sviluppo, di relativo progresso. Al suo fondo, però, si è affermata sempre più nettamente quella sua dimensione di spartiacque, di potenza nichilista, di disordine irredimibile, insieme a quella della speranza, attraverso il ritorno alla ragione, agli accordi mondiali, alla fondazione di una civiltà planetaria.

Qui, in questa aporia tra "capolinea" e "speranza", si è attestata la fine stessa del secolo e oggi questa aporia ci sta di fronte e come problema e come compito.

(da Franco Cambi, Le pedagogie del Novecento, Laterza, 2005, dall’Introduzione, 1 Alla ricerca di una definizione del Novecento)

           Di fronte alle prospettive di osservazione di un filosofo e storico, qual è Franco Cambi, possiamo restare discretamente lontani, non sentirci coinvolti, possiamo chiosare o anche in alcuni punti dissentire, eppure è certo che non abbiamo la libertà di ignorare l’impianto costruttivo della sua prospettiva.

Per chiunque voglia conoscere e comprendere se stesso e le situazioni che vive, non è rilevante l’oggetto su cui si concentra l’attenzione bensì è l’insieme della modalità di approccio che persegue, delle strategie che mette in atto, delle metodologie, degli strumenti che sceglie, della domande che si pone in primis sull’obiettivo o gli obiettivi da raggiungere.

La spinta a conoscere, spesso finalizzata a valutare quando non a giudicare, sappiamo che necessita di obiettività, di una nostra attenzione non viziata da atteggiamenti pregiudiziali; ne siamo convinti e siamo pronti a sanzionare per ottusità chi resta fedele solo a se stesso e alle sue idee pre-concette.

Eppure, ciascuno di noi in questa società, erede di quel secolo ventesimo contraddittorio e “innominabile”, ha imparato a conoscere quanto sia difficile mantenere un equilibrio tra la fedeltà a se stessi e l’accettazione del nuovo. La pressione mediatica prospera imponendo ubriacature per il nuovo, opzioni così dette personalizzate, opportunità reali e fittizie, modelli di vita e in tempi sempre più stretti atti ad impedire riflessione e ritorno a se stessi prima di ogni scelta …e tutto rigorosamente avulso dal contesto di riferimento. Così noi progressivamente siamo indotti a fraintendere, ad accettare come fosse vera la visione parziale che ci viene proposta allo scopo di apparire adattabile a tutti e a ciascuno, scientemente astratta da riferimenti concreti e reali.

È urgente prendere atto che non solo il secolo XX è polimorfo e contraddittorio, bensì ogni realtà, che ci tocchi, da vicino o da lontano appartiene a noi e al nostro “villaggio globale”, è composta da mille e più sfaccettature, da aspetti plurimi contraddittori e tutti di estrema rilevanza, perché il nostro è evidentemente il mondo della complessità per il quale, come altrove si diceva, è impropria la strategia di semplificazione, adatta invece a situazioni complicate.

Come possiamo definire una qualsiasi conoscenza se non siamo in grado di riconoscerla appartenente l suo contesto o agli ambiti su cui influisce?

           Di quali contesti è bene che teniamo conto? Fortemente limitante e ingenua sarebbe l’ipotesi di occuparsi solo di quelli della nostra personale esperienza, perché non siamo monadi isolate e i sistemi sociali culturaliorgnizzativi del mondo costituiscono l’humus dal quale proliferano verso ciascuno di noi opportunità e ostacoli, quindi proprio di quelli che per quanto appaiano a noi ininfluenti per i nostri diretti interessi, per le nostre scelte, caratterizzano la nostra epoca. Non è facile e occorre un allenamento continuo a porsi al di fuori di se stessi per poter osservare, liberi da giudizio o sospendendo il giudizio, come da counselor ripetiamo a noi stessi e ad ogni persona che ci chiede aiuto.

Definirei questa condizione, spirito di realtà: il tenere presente quali siano le forze in campo, le dinamiche, gli obiettivi di ogni ambito verso cui nutriamo interesse. E, se siamo determinati a imprimere direzioni nuove a quell’ambito, tanto più abbiamo necessità di conoscerlo nei dettagli, nelle sue contraddizioni per introdurci nelle maglie di quel sistema tra i tanti altri sistemi che silenziosamente ci condizionano.

Cominciare dalla consapevolezza di sé e dal campo di senso delle relazioni interpersonali, che il counseling agevola, è un buon inizio.

Potremmo definire in ogni situazione quali siano gli attori, quali responsabilità spettano a noi e di quali prioritariamente siamo tenuti ad occuparci, quali invece sano da demandare ad altri, potremmo individuare eventuali rischi, per noi o implicite nelle stratgee che stiamo adottando per perseguire i nostri obiettivi. Come potremmo gestire efficacemente un lavoro in collaborazione con altri se non ci rendiamo capaci di cogliere il livello di competenze e la disponibilità di ciascun soggetto coinvolto, la qualità di interazione relazionale tra tutti? E l’ambito-contesto esterno, cioè ambientale, il tessuto sociale, le condizioni culturali che si insinuano prepotentemente nella nostra personale esperienza, non sono forse altrettanto importanti?

           Non ci è richiesto di procedere all’analisi del contesto da esperti come è richiesto a chi ricopre ruoli decisionali di alto livello, tuttavia siamo ben consapevoli che un esercizio utilissimo a restituirci il senso della realtà nei suoi diversi e complessi aspetti, un esercizio che frequentemente suggeriamo ai nostri clienti, è la tecnica di analisi SWOT che consente di tener conto sia dei fattori esogeni che dei fattori endogeni in grado di influenzare il conseguimento degli obiettivi, ovvero, ed è questo il punto focale per la nostra vita, un esercizio che è in grado di attivare comportamenti per individuare in noi punti di forza e punti di debolezza per poter cogliere le opportunità e diminuire o risolvere le minacce del sistema-contesto di riferimento.

Cordialissimamente,

Giancarla Mandozzi

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