"PRENDIMI A CALCI". La persistenza del ruolo di vittima

Inviato da Nuccio Salis

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"Prendimi a calci" è il nome di uno dei tanti giochi drammatici individuati da Eric Berne nel suo modello analitico-transazionale. Questo (così come molte altre dinamiche attivate nei ruoli psicosociali) illustra egregiamente il funzionamento di certi meccanismi di attivazione e di mantenimento riguardo uno status ed una condizione esistenziale infelici e connotati da epiloghi altrettanto incresciosi. Cerco di fare un esempio: un pesce non può vivere fuori dall'acqua. Preferirebbe ricevere e fomentare notizie che parlino dell'inquinamento del suo habitat, sulle minacce della pesca intensiva o della presenza di predatori più in cima alla catena alimentare. Se non avesse tutto questo, il suo mondo sparirebbe.

L'effetto sarebbe letale, dal momento che egli non è stato programmato per immaginarne o costruirne uno alternativo. Sarebbe già un passo avanti se dovesse disquisire o domandarsi qualcosa circa l'esistenza o meno dell'acqua, dentro cui vi si trova a bagno fin dalla nascita. Insomma, il pesce ha bisogno del suo ambiente marino come la mente comune ha bisogno dei drammi. D'altra parte, questo è il principio fondativo regolatore che impianta Berne a supporto del suo modello. Questa logica può essere sintetizzata nei seguenti enunciati: "Meglio i calci che nessun riconoscimento", affiancato dal suo assioma collaterale "Meglio i calci rispetto a qualcosa che mi destabilizza". In sintesi, la quasi totalità degli umani è programmata per preferire stimolazioni (seppur squalificanti) di dubbia e mediocre qualità, piuttosto dell'assenza di stimolazioni. Il moto interiore diventa "Meglio male accompagnati che soli". Oh! Lo so bene che chiunque asserisce il contrario. Ma questa è un'altra immancabile caratteristica tipica degli umani: dimostrare con le azioni l'esatto opposto di ciò che hanno annunciato a parole. La conclusione impopolare ed impietosa (e quindi vera) è che la vittima non vuole salvarsi, perché ciò implicherebbe la perdita della sua identità, del ruolo copionale con cui si è fusa in modo adesivo, poiché questa condizione rappresenta la sola struttura personologica che ne giustifica la ragion d'essere. L' unica conosciuta. L' unica ammissibile. Ed ecco perché questo palcoscenico circense e delirante di maschere è la massima aspirazione e il miglior luogo di comfort per chi prende parte a questa commedia. Le vittime non stanno realmente soffrendo. Non vogliono essere aiutate per davvero. Non possono abbandonare la loro dimensione senza sentirsi morire. Accettano offerte di aiuto solo per fare incetta e collezione di bollini e crediti emozionali coi quali rafforzare la loro autosvalutante immagine di sé. Quindi inutile affannarsi nel tendere loro la mano. Potrebbero trascinarti dentro il loro film e fare di te il loro Salvatore. Gratificante, vero? Tanto appagante quanto finto. Profondamente illusorio. E patologico. Le vittime soffrono solo se non vengono scritturate, e se non trovano co-protagonisti da coinvolgere dentro la loro narrazione. Esse hanno l'inderogabile necessità di abitare dentro una cornice di eventi che alla luce di una visione esterna lucida e consapevole si rivela assurda e distonica, ma che per loro rappresenta la normalità. La speciazione in progress allarma alla sola presenza circa i rischi e pericoli letali di cadere nelle trappole drammatiche delle vittime ontologiche. Il coraggio responsabile della propria autenticità e della impopolarità rimane a tutt'oggi l'unico rimedio decisivo ed efficace per tutelare e sviluppare il vero Sé. (dott. Nuccio Salis - pedagogista clinico - counselor socioeducativo - formatore analitico-transazionale)

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