I BAMBINI E LA GHIANDA. Cosa ci rende resilienti di fronte alle avversità

Inviato da Nuccio Salis

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Il tradizionale approccio clinico basato sull'identificazione della patologia da classificare dentro la nosografia dei protocolli e dei manuali diagnostici, ha dominato a lungo sulla cultura medico-scientifica e nella relazione di aiuto. Ancora oggi nell'immaginario collettivo un fruitore di servizi e consulenza alla persona nell'ambito socio-sanitatio è percepito ancora come soggetto problematico.

La persistenza delle leggende popolari è da sempre una delle tecniche di autodifesa che la comune mentalità ingenua impiega nel tentativo di destabilizzare le condizioni acquisite e sentire il mondo come un luogo protetto, sicuro e prevedibile. Questo bisogno ha prevalso per un esteso periodo anche nell'ambito del trattamento terapeutico e nell'aiuto alla persona. In particolare nel difendere l'impostazione deterministica causale (influenzata dalla psicanalisi ortodossa) che mette in relazione di continuità e di sicuro collegamento temporale sequenziale una vicenda traumatica che fa da innesco ad osservabili comportamenti problematici e disfunzionali. In pratica, secondo questa visione, tutti coloro che ad esempio da piccoli furono esposti ad eventi significativamente disturbanti (forme di abuso, lutti, abbandoni) sviluppaeranno con certezza disagi emozionali ed associate espressioni comportamentali problemiche. Pur sottolineando che lo studio sull'eziologia delle condotte antisociali, delle manifestazioni di sé in termini violenti ed oppositivi (nelle forme sia autolesive, eterolesive che combinate) ha confermato da una parte l'esistenza di tale rapporto lineare, e quindi ricondotto e riconosciuto un evento particolarmente stressogeno come originario di spiacevoli effetti socialmente constatabili, rimane da mettere in evidenza che i dati non permettono comunque un'approssimazione totale. Resta cioè scoperta un'area di soggetti (secondo alcune ricerche circa un terzo di un campione totale seguito longitudinalmente) che non avrebbero sviluppato serie e rilevanti problematiche psico-affettive e socio-relazionali, nonostante l'anamnesi biografica faccia emergere il contatto con modelli primari marcatamente disfunzionali. La non totale riproducibilità e non sicura prevedibilità del fenomeno, ha indotto nel tempo studiosi e ricercatori ad estendere il focus osservativo anche sull'individuazione di quelle importanti variabili che permettono a un certo numero di soggetti di centrarsi su se stessi e condurre una vita tutto sommato equilibrata e ragionevolmente soddisfacente, nonostante i gravi ed i potenziali rischi con cui si sono imbattuti e contro cui hanno dovuto fare i conti. Questa scoperta ha modificato l'egemonia del paradigma medicalizzante fondato soltanto sulla visione della patologia, del limite, della disfunzione, del rischio, e sono così potute emergere nuove domande, riflessioni, ipotesi e considerazioni operative che hanno obbligato la stessa Organizzazione Mondiale della Sanità a delineare ufficialmente nuovi approcci e nuove strategie nel rapporto di aiuto alla persona. Si vedano i protocolli . I.C.D.F, emendati fra la fine del secolo scorso e l'inizio di questo nuovo. Pertanto, la domanda pertinente da farsi è: perché non tutti i bambini che da piccoli hanno dovuto conoscere l'amarezza degli abusi, delle privazioni o di altri eventi incresciosi, sono comunque diventati adulti sani, efficienti ed integrati? Le risposte devono incuriosire tutti coloro che professionalmente sono impegnati nella ricerca di quei fattori resilienti e protettivi che permettono a un individuo di ri-costruirsi in modalità comunque autentica ed autonoma. Secondo il linguaggio del buon James Hillman dovremmo interrogarci su come ciascun bambino sia riuscito, nel corso della sua storia ad attraversare certe infauste intemperie della vita, custodendo e proteggendo la sua ghianda. Come ha potuto conservare e in seguito anche rilanciare la sua energia vitale? In sintesi, questo è potuto accadere per via della presenza di fattori e indicatori compensativi che hanno ridimensionato la negatività potenziale dei fattori di rischio. Questo processo di coping, che non può essere avvenuto in modo troppo strutturato e pianificato, è stato favorito da circostanze che sono da ricercare appunto nella presenza multifattoriale di alternative funzionali. Esempi concreti per chiarire il concetto: un bambino può avere avuto un genitore violento, autoritario, oppure trascurante e anaffettivo, ma può aver contato sull'altro genitore che ne ha ammortizzato gli effetti. O ancora:un bambino può aver avuto entrambi i genitori disfunzionali, ma può essere stato accudito in parte da membri della rete parentale in grado di fornirgli risposte adeguate ai suoi bisogni ed urgenti richieste affettive. Inoltre, un bambino può aver avuto perfino la sventura di essere inserito in un sistema famiglia allargato interamente caratterizzato dal disagio, da un contesto deviante e disaffettivo, ma può aver nel mentre reperito risorse e figure importanti extrafamigliari (un insegnante, un tutor, un allenatore sportivo ecc.) Se poi anche la comunità rispecchia e ricalca il modello famigliare inefficace allora le difficoltà possono crescere. Questo però non obbliga più a schiacciare il singolo e la sua storia in una visione deterministica, quanto piuttosto permette di far affiorare una prospettiva ecologica, che impone la ricerca di un lavoro sinergico di rete fra tutte le forze positive in campo. È necessario infatti ricordare che le risposte costruttive e resilienti non possono essere lasciate alla fortuna e all'improvvisazione, ma devono essere prese in carico dal responsabile dell'attività di caring ed orientate all'interno di un piano d'intervento oculatamente congegnato in tutti i suoi criteri di validità interna ed esterna. Dobbiamo cioè operare diretti verso risultati raggiungibili e verificabili. In questo modo possiamo aiutare i bambini a non essere avvinti dal fatalismo, ma a mostrare loro speranze da trasformare nella concretezza delle percorribili opzioni e itinerari da intraprendere. Tutto questo non significa sottostimare quanto vi sia un concatenamento diretto fra difficoltà esistenziali nell'infanzia e generi di problematiche varie nel repertorio comportamentale degli adulti, anzi; le percentuali di questa diretta linearità rimangono molto alte e significative, obbligandoci a ragionare ed operare anche in termini di prevenzione. Quel che più conta è aiutare ciascun bambino a coltivare la sua ghianda, perché non venga oscurata ed ammorbata dalle pressioni di certe infelici circostanze, ma preservata e riscoperta durante questo viaggio interessante ed a volte faticoso chiamato vita.

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