Dalle scene del Dramma, agli Scenari


Dalle scene del Dramma, agli Scenari

Foto di rohan5546 da Pixabay

 

Consumato il dramma, sulle nostre timide e scarse certezze troneggiano dubbi e interrogativi che le informazioni continue, pressanti, ossessive e in acrimonioso disaccordo ingigantiscono. Molti invocano strepitano, insistono che occorre tornare alla normalità il prima possibile, altri con atteggiamento che non ammette repliche sentenziano che Nulla potrà più essere come prima e tra loro ampio spazio pretendono e ottengono voci catastrofiche così generiche e dense di previsioni negative globali che non consentono repliche.

 

Tornare alla normalità?

Coloro che si fanno portavoce di uno scenario futuro sostanzialmente identico al prima: ri-prendere le antecedenti abitudini, i consueti spostamenti, la corsa pur sfiancante e stressante che ora, dopo giorni di costretta vita domestica assume un sapore di autentica libertà, sanno di credere a qualcosa che è di fatto irrealizzabile? Confinano nello sfondo e ignorano con preciso calcolo o ingenua ostinazione, la ragionevole ipotesi di una realistica seconda fase di contagi. Ma è eventualità da confinare come secondaria?

Tornare alla normalità!

Come è possibile che sfugga l’intima contraddizione di un tornare a ciò che ha determinato il problema? Perché di questo si tratta: quella che si pretende di chiamare normalità è la vita che abbiamo condotto prima di questo evento, quella stessa che, dunque, in sé conteneva in potenza le condizioni favorevoli alla pandemia.

Come è possibile che non appaia evidente che in questa affermazione si celebra l’esempio più calzante di ossimoro? Perché mai questo tipo di osservazioni non hanno cittadinanza in questo periodo in cui più che in altri può esserci di conforto cercare di comprendere, di comprenderci, di ri-pensare come osservatori esterni a come stavamo vivendo forse inconsapevolmente.

E se pure volessimo restare in ambito semplicemente storico, di come la vita di ciascuno sia apprendimento e apprendimento attraverso l’esperienza, resta evidente che è impossibile eliminare da noi l’esperienza vissuta, qualunque essa sia. Noi oggi, tutti noi, siamo altri da quelli che eravamo; ci ha modificato il contesto globale e locale, il nostro modo di viverlo, il nostro carattere, il nostro copione di vita. Dunque non potremo che portare in noi i segni di questa nuova esperienza che non potrà che farci vedere con altri occhi e ogni vecchia abitudine, per ciascuno di noi, assumerà altro sapore. O, chi ci sollecita a questo, crede di doverci impegnare in un lavorio di rimozione in nome di altri piccoli, reificati obiettivi (soldi, divertimenti, euforia…) portandoci ancora più lontano da noi stessi di quanto  già non fossimo prima?

In questo evento, ciascuno di noi ha bisogno di essere aiutato a reperire risorse interiori ed energie perché “cogliere nella crisi l’opportunità” non resti uno slogan a vantaggio della visibilità, sul web e nella comunicazione mediatica, dei tanti intraprendenti divulgatori di belle parole.

Assordante il silenzio riservato dai media ai tanti solerti, efficaci professionisti della relazione d’aiuto.

Se ritornare alla normalità è un nonsense, allora possiamo accettare che Nulla potrà più essere come prima?

Non vì è dubbio che sia questa un’affermazione ad effetto, come tante ne sentiamo pronunciare nel tacito diffuso coinvolgimento in una strisciante e non esplicita gara di acume, novità, metafore inusitate, assonanze, consonanze, alliterazioni… ma la pretesa assoluta di quel Nulla e di quel più, sono fin troppo evidente segno di forzatura.

Le dimensioni diverse persino opposte dell’essere umani, sono tutte riconducibili a ciò che è relativo; l’assoluto, la perfezione né del Bene, né del Male, l’Infinito non ci appartengono pur essendo le dimensioni che inseguiamo e a cui amiamo avvicinarci. Dunque, nulla rimarrà come è stato? In noi, in altri, in qualche contesto, che ne siamo a conoscenza o meno, qualcosa sfuggirà alle maglie del cambiamento, forse non sarà visibile, forse il cambiamento prevarrà, ma ciò non ci autorizza a coltivare una certezza che è e resta inappropriata per la nostra condizione umana. Anche i più grandi cambiamenti epocali, hanno mantenuto  inequivocabili legami con il pregresso e ciascuno di noi ha constatato che le radici delle scelte di vità più innovative albergano nel prima; lo stesso apprendimento del nuovo si determina e si sostanzia sulla base di ciò che già conosciamo.

Nei momenti in cui siamo più disponibili, quando un poco si allenta la morsa della pena per gli eventi che ci coinvolgono tutti, potremmo ri-scoprire l’autentica condizione umana e sarebbe una conquista impegnativa quanto generatrice essa stessa di effetti collaterali che ora neppure siamo in grado di immaginare.

E a coloro che hanno scelto il ruolo di catastrofismi, è bene che  riserviamo indulgenza?

Le loro previsioni tra generiche e generali, si fondano su dati, numeri comunicati con matematica precisione, dunque sono più credibili? Potrebbero esserlo e magari lo saranno, quando gli esperti, ormai fuori dall’emergenza, potranno studiare e valutare con la dovuta scrupolosità quei dati. Come possiamo credere che oggi, mentre l’evento ancora in gran parte sconosciuto e non ancora neutralizzato ci condiziona, ci sia data la necessaria lucidità per individuare realisticamente effetti oltre che nell’immediato, a medio e lungo termine.

Davvero vogliamo ignorare, noi nel Paese cultore della Storia, la imprescindibile necessità di una prospettiva storica per accostarsi alla comprensione di un evento?

Di certo, non è questo il tempo dell’equilibrio: all’emergenza, in particolare ad un’emergenza nuova e particolarmente complessa che coinvolge il mondo nella sua globalità, è semplicemente umano far fronte, in assenza di esperienze simili pregresse, disordinatamente, alla spicciolata e in gruppo, con la mente, le competenze o solo con l’ostinazione del cuore.

Gli errori già evidenti e i tanti che emergeranno saranno importanti per riuscire a declinare meglio la complessità di questo nostro mondo e, se lo vorremo, riusciremo a modificarne almeno alcuni elementi per avviare o riprendere e modellare il dialogo con  noi stessi.

Ricette semplificatrici di qualsiasi genere –ottimistiche o minacciose- sono quelle che umanamente, nel disagio, andiamo cercando e invochiamo ed è naturale, persino ovvio, che prolifichino. In fondo tutti coloro che si spendono a proporre soluzioni, pareri anche confortati da rilevazioni e dati sanno di rispondere ad una diffusa nostra esigenza, ed è per lo stesso motivo che a noi è richiesto di fare ricorso a quel poco di spirito critico che ci è rimasto, per non restare nel disagio, anche confusi. Ricette semplificatrici per un mondo notoriamente complesso, non possono essere soluzioni accettabili

           Ci attende un gravoso e, per grande parte, insolito impegno.

Se proviamo a immaginarlo, lo vediamo come una strettoia o come un tunnel?

L’immagine, lo sappiamo per molteplici esperienze, ci soccorre per comprendere contenuti complessi perché più velocemente elaborata dal nostro cervello ed ha un potere  persuasivo, coinvolgente che alla parola eccezionalmente è dato,.

Da questa nostra proiezione immaginifica, individuale o collettiva, il nostro impegno prenderà forma, motivazione, intensità, opportunità di esiti favorevoli.

Dunque, Strettoia o Tunnel? Alla prossima riflessione.

Cordialissimamente,

Giancarla Mandozzi

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