Sindrome del burnout


La sindrome del “burnout” (scoppiato, bruciato), fu riscontrata per la prima volta negli Stati Uniti negli operatori delle “helping professions”. Si tratta infatti di un complesso di sintomi, manifestazioni emotive e comportamentali, che colpiscono prevalentemente i lavoratori del settore terziario socio-sanitario. E’ l’esito della risposta del lavoratore, gruppo di lavoro, o intera organizzazione, ad una costellazione di fattori stressogeni presenti in un dato contesto lavorativo di carattere sanitario o sociale. Colpisce quindi medici, infermieri,operatori del volontariato, educatori, poliziotti, insegnanti: tutte quelle professioni connotate dalla forte rilevanza del rapporto umano dove siano presenti i ruoli asimmetrici di un caregiver e una persona ricevente un servizio di assistenza. Queste professioni sono fortemente a rischio di un sovraccarico emozionale dove allo stress della relazione con l’assistito s’intrecciano i più comuni elementi problematici di tipo organizzativo e produttivo propri di un qualsiasi sistema lavorativo, senza tralasciare il rischio che gli operatori “si portino a casa”(com’è comune dire nel settore) i problemi dei pazienti o della propria relazione con essi.

Il burnout è dunque un lento processo di logoramento psicofisico del lavoratore, la punta dell’iceberg di un meccanismo che attraversa 4 fasi (si è convenzionalmente stabilito che siano tali in base alle osservazioni compiute sin’ora):

  • Fase iniziale dell’ “entusiasmo idealistico”. Le persone sono fortemente incentivate dalle motivazioni personali alla base della loro scelta professionale: la possibilità di sentirsi utili o di avere potere sugli altri, status ecc. Spesso questa fase coincide con un sovraccarico di responsabilità che il soggetto si assume sostenuto dalla forte spinta motivazionale, rimuovendo spesso i propri bisogni personali.
     
  • Fase della “stagnazione”. Il soggetto comincia a rendersi conto che il lavoro scelto non soddisfa le proprie aspettative e non riscontra i feedback positivi desiderati, dal rapporto coi pazienti e con l’organizzazione. Ne consegue un atteggiamento di progressivo disimpegno.
     
  • Fase della frustrazione. Subentra il crollo psicologico: il lavoratore prova sentimenti d’inutilità, la consapevolezza di non poter essere efficace nella relazione d’aiuto come aveva idealizzato. Il senso d’impotenza può generare comportamenti aggressivi verso altri o se stessi, e subentrano più o meno consapevolmente meccanismi di fuga (pause più prolungate, maggiore assenteismo).
     
  • Fase dell’apatia. Coincide con quella che potremmo definire la vera e propria “morte professionale”del lavoratore.
Il lavoratore colpito dal burnout accusa sintomi ansiosi o depressivi (e può abusare per questo di farmaci),può andare incontro a varie somatizzazioni e presenta reazioni emotive e comportamentali connotate da un sempre crescente cinismo e depersonalizzazione rispetto alla propria realtà lavorativa e ai suoi assistiti. Quest’ elemento della depersonalizzazione rappresenta un fattore distintivo della sindrome da burnout rispetto ad altre risposte allo stress. La depersonalizzazione comporta il passaggio dall’iperinvestimento emotivo nella relazione col paziente ad un totale disinteresse ed estraneamento, fino al rifiuto degli aspetti emotivi della relazione stessa.
 
Sulla base di quanto sin’ora esaminato ci troviamo di fronte ad una sindrome dall’eziologia multifattoriale, dove le concause vanno dalle variabili personali, a fattori ambientali e disfunzioni nella struttura organizzativa del proprio contesto di lavoro, alle aspettative inadeguate rispetto al ruolo effettivamente ricoperto, alle relazioni tese con i colleghi.
Sarebbe proficuo un sistematico intervento preventivo volto principalmente a garantire una supervisione sul gruppo di lavoro, dove fare emergere le conflittualità e riproporsi realistici obiettivi, incentivare il senso d’appartenenza e la possibilità di condivisione delle emozioni in gioco.
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