Di cosa abbiamo bisogno?


Nell’ultimo periodo penso spesso al significato del termine “bisogno”. Rifletto su questa parola che trovo essenziale nel mio lavoro come Counsellor e che vedo diventata lontana e sommersa da altro.

Il dizionario mi dice che il bisogno è la “Mancanza di qualcosa che sia indispensabile o anche solo opportuna, o di cui si senta il desiderio.”

 

Ebbene che cosa è indispensabile per te? Che cosa desideri?

Per me questa è una bussola importante da tenere in considerazione durante i colloqui: quando una persona mi chiede una consulenza mi chiedo: che cosa l’ha portata da me? Cosa ci ha portato qui in questo momento? Qual è il bisogno di questa persona?

Può sembrare semplice, voi direte, so di cosa ho bisogno!

 

Nella mia esperienza arrivare ad ascoltare e capire quale bisogno abbiamo quando siamo in una situazione che ci mette in difficoltà, è frutto di un processo. Come se nella vita di tutti i giorni il bisogno sia stato sommerso da una pila di vestiti….abitudini, compromessi, rinunce, priorità, lavoro, casa…e sotto a tutto questo, sommerso a volte, c’è un bisogno. Solo che quando non lo ascoltiamo poi quel bisogno, se non soddisfatto, ci fa stare male, perché è importante, a volte come dice la definizione, Indispensabile!

Si tratta allora di togliere i vestiti impilati e ridare al bisogno il suo spazio.

 

Esistono tanti bisogni diversi ovviamente, anche questo richiede una sua attenzione. Tra i bisogni fondamentali che ogni individuo ha ce ne sono tre principali secondo l’AT: il bisogno di stimoli, il bisogno di strutturazione del tempo e il bisogno di riconoscimento.

 

Quello che ho potuto osservare fin’ora è che molte delle difficoltà che i clienti manifestano hanno a che fare  con il “bisogno di riconoscimento” esplicito o implicito: la teoria alla base di questo concetto è che tutto quello che facciamo nella nostra vita lo facciamo per essere riconosciuti e il “luogo” privilegiato per trovare riconoscimento è la relazione con l’altro. Se la osserviamo da questo punto di vista molte delle cose che facciamo le facciamo per essere riconosciuti, per ottenere carezze.

Berne utilizza il termine “carezza” per definire un “qualsiasi atto che implica il riconoscimento dell'altra persona" e distingue svariati tipi di carezze: verbali o non verbali, positive o negative, condizionate o incondizionate. Guardare l’altro, salutare, abbracciare, riconoscergli il buon lavoro svolto, recepire un aumento di stipendio o al contrario svalutare, criticare, negare la propria presenza, sono tutte forme di riconoscimento (alcune positive e altre negative ovvio). Ogni persona ha un proprio filtro delle carezze, predilige certe carezze al posto di altre oppure fatica a chiederle o a darle, sulla base del proprio “copione di vita” e delle proprie esperienze, all’interno di una cultura caratterizzata da quella che Steiner chiama “Economia delle carezze”.

Siamo abituati a credere che riconoscere in termini positivi, noi stessi e egli altri, sia qualcosa da fare con parsimonia, non troppo spesso e solo a fronte di qualcosa di “grande”.  Non è così!

Quando non ci sentiamo riconosciuti a volte mettiamo in atto comportamenti impliciti, poco chiari, mirati alla soddisfazione di quel bisogno così importante e al tempo stesso così difficile da esprimere, ma lo facciamo in modo poco funzionale e alla fine non otteniamo quello che desideriamo. Anzi spesso l’altro neppure l’ha capito cosa volevamo!

Nella mia attività professionale penso sia importante che il cliente diventi consapevole che le carezze sono disponibili in quantità illimitata e che sono una risorsa fondamentale per sè stesso e per le sue relazioni.

Questo è possibile anche nella relazione consulenziale stessa: sottolineo all’interno dei colloqui aspetti positivi che vedo nei miei clienti, nei pensieri che mi riportano, nelle emozioni di cui parlano, nei comportamenti che mettono in atto, nei cambiamenti e nelle fragilità, e valorizzo le loro competenze. Sostengo nei momenti critici la capacità della persona di stare in quella situazione, e le risorse che sta “mettendo in campo”. Ritengo che la relazione consulenziale stessa sia una “carezza” all’interno della quale io sono lì per i miei clienti, la mia attenzione è diretta a loro e ai loro bisogni. Nello stesso tempo il fatto che la persona chieda aiuto e si “conceda” uno spazio riflessivo è di per sé un riconoscimento che la persona comincia a “permettersi”. 

Spesso il percorso si conclude con l’avere tolto la pila di vestiti accatastati e avere scoperto, guardato e osservato che c’è un bisogno. Poi come lo soddisferemo è tutta un'altra storia...

 

 

 

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