LA VULNERABILITA’ NON E’ CONTRO LA VIRILITA’. Il guerriero col permesso di sbagliare.

Inviato da Nuccio Salis

fare errori

L’errore come strategia possibile di apprendimento rappresenta un tema assai noto ed ampiamente affrontato, specie nell’ambito del problem-solving e dell’attività esplorativa e di ricerca in genere. Non è facile promuoverlo su un piano di reale riscontro e di utilità pratica, dal momento che il prestazionismo e le richieste di efficienza dentro la società del profitto e del riconoscimento altrui basato sulla performance, non inclinano certo ad una valutazione anche eventualmente positiva dell’errore.

 

Esiste inoltre, pur nella specificità storiografica e identitaria di ciascuno di noi, un percorso educativo in cui abbiamo sviluppato quella parte di noi che rappresenta il mondo in termini di valori, prescrizioni, norme e giudizi, e che talvolta, invece di funzionare come una buona guida che ci orienta ad agire secondo importanti e condivise coordinate etiche e valoriali, ci fustiga e ci castiga assumendo il ruolo di un giudice interiore critico e spietato.

 

 

Questo implacabile e severo giudice non ammette versioni alternative in merito alla spiegazione dei fatti che ci vedono protagonisti di decisioni che ci hanno condotto ad imbatterci nell’errore, perché non è in grado di cogliere sfumature di giudizio, e preferisce piuttosto ricondurre ogni evento ad una rigorosa confrontazione con i suoi modelli interpretativi della realtà. Questa entità giudicante interna considera i suoi criteri di valore al di sopra di tutti gli altri, e quindi immutabili, rigidi e inconfutabili. Si comporta come un fondamentalista che si protegge da ogni contaminazione e influenza esterna con la tattica dell’attacco preventivo, per fugare la possibilità del confronto e del dialogo pacifico.

 

Questa parte di noi, cresciuta insieme a noi come un vero e proprio parassita che ci sabota e ci priva dello slancio alla vita, è purtroppo una parte del Sé, e rappresenta un elemento della nostra personalità integrata, e che dobbiamo imparare a gestire e tenere sotto controllo, perché non prevarichi rendendoci l’esistenza un concatenamento di eventi e vicissitudini tesi soltanto a umiliarci ed a riconfermare l’immagine degradante del personaggio con cui ci siamo identificati.

 

Questa larva si nutre delle nostre disfatte e della nostra ansia da prospettato fallimento, e per vivere ha bisogno che noi conserviamo il personaggio disfattista e perdente di cui ne abbiamo già scrittura la sceneggiatura con tanto di epilogo.

 

Riscrivere la nostra storia ed uscire dal teatro degli orrori è dunque un compito di cui dobbiamo prendere necessariamente coscienza.

 

La difficoltà insita in questo percorso consiste nel fatto che questa parte di noi conosce fin troppo bene i nostri punti deboli, e li sfrutta a suo vantaggio. È necessario conoscere il suo linguaggio e riprendersi con dignità la capacità di poter scegliere in autonomia, nonostante gli inviti al dramma che questa parte di noi ci tende.

 

Ed il suo linguaggio è quello assolutizzante delle doverizzazioni. Molti dei suoi precetti cominciano con il “Devi…”, “Si deve…”, “Gli altri devono…”. Le sue aspettative sono legate a comandi e prescrizioni da cui si attende soltanto adesione e obbedienza, in mancanza di cui non è in grado di sostenere la frustrazione dovuta alla rottura delle sue previsioni, e pertanto agirà medianti atti riparatori tesi a far espiare le colpe in modo mortificante. Questo atteggiamento chiude naturalmente a qualsiasi possibilità di riflessione interiore e di recupero funzionale dell’errore, dal momento che la colpa non viene trasformata in responsabilità, e l’azione considerata impropria, secondo i parametri del giudice interiore, diventa soltanto motivo di persecuzione a chi soggiace a questa tirannia del pensiero assolutizzante e di una coscienza che castiga e infligge punizioni senza offrire possibilità di riscatto e di miglioramento.

 

La risultante conclusiva di questo processo consiste nel far percepire alla persona una percezione di sé distorta, ovvero attraverso un’autoattribuzione negativa e svalutante mediante cui ci si squalifica nel proprio valore di individuo, percependosi secondo canoni di incompetenza e mancanza di autoefficacia, in rotta cioè verso il fatalismo e la rassegnazione.

 

Questo ospite inquietante è principalmente costituito da una serie di leggi e comandamenti introiettati dalle figure primarie durante l’infanzia. Secondo i precetti dell’orientamento analitico-transazionale, si parla di “Genitore Porco”, potente ricattatore che innalza i suoi strali ogni qualvolta osiamo prendere l’iniziativa di fare esperienza e di scoprire a modo nostro come è fatto il mondo. Questo despota interno è in grado di limitarci la visione delle cose, se gli lasciamo la facoltà di prendere il sopravvento sulla nostra tensione esplorativa e sul nostro diritto a conoscere e sperimentare. Possiamo invece riconoscerci la legittimità nel costruirci una nostra personalità, riconoscendoci obiettivi e desideri che corrispondano in modo autentico e congruente a ciò che sentiamo di essere, e quindi prendere atto che non siamo obbligati necessariamente a sovrapporci ai modelli predeterminati ed ingiunti dalle categorie dicotomiche del perverso giudice interiore.

 

Proprio nei percorsi clinico-terapeutici ad impostazione analitico-transazionale, si cerca di insegnare a ciascuno questi essenziali e prioritari principi di rivalutazione di sé in termini di libertà, autodeterminazione, riscatto e responsabilità, affinchè ciascuno si senta in grado di ricevere una nuova spinta talvolta diretta verso la pienezza di un’esistenza affrancata dalle limitazioni mortificanti assunte durante il periodo evolutivo di massima vulnerabilità. La tecnica principale consiste nell’invito ad esercitarsi a trasformare i divieti e le censure in permessi, sviluppando il coraggio di scegliere secondo un’accezione positiva di potere, che include sempre elementi di liceità, realizzabilità e favorevole autocontrollo.

 

Tale passaggio segna realmente l’emancipazione di un individuo che transita da una dimensione di sé che lo chiude dentro il nichilismo e la percezione di sé come soggetto incapace e deplorevole, ad una pratica di vita che mobilita le nostre risorse migliori.

 

L’auspicio è che ciascuno riprenda in mano le redini della propria esistenza, prima che i divieti del Genitore aguzzino si proiettino anche all’esterno, facendoci diventare intransigenti anche con gli altri, configurando la posizione svalutante a doppia matrice “Io non sono OK – Tu non sei OK”.

 

Occorre su questo, a mio avviso, non soltanto una limitata (per quanto efficace) cornice di lavoro terapeutico, quanto anche un profondo e diffuso cambio radicale nel paradigma culturale comune, dal momento che le esperienze di contatto interpersonale fanno costantemente emergere le parti ferite di noi a cui non sappiamo dare un nome, creando di conseguenza relazioni disfunzionali basate sul conflitto esasperato, che possono andare dall’incomprensione fino al raggiungimento di livelli estremi e raccapriccianti di inaudita violenza e sopraffazione dell’uno sull’altro.

 

L’errata interpretazione della vulnerabilità e della sensibilità umana come mancanza di coraggio e di forza è un cascame del culto del “maschio forte”, che non può ammettere e concepire la presenza di punti di fragilità. È un concetto su cui purtroppo si basa il modello dominante spartano dell’educazione famigliare. Tale credenza conduce molti genitori a generare doppi legami e contesti disaffettivi, in cui l’incostanza e l’incertezza della presenza affettiva sembrano giustificati dalle aspettative circa la durezza di una vita futura, che obbliga ad abituare fin da piccoli i bambini all’esperienza dell’abbandono e dell’arrangiarsi di fronte alle difficoltà.

 

Il paradosso consiste nella convinzione di crescere figli sicuri, proprio mentre si sottrae loro l’energia affettiva primaria che consolida le strutture di una personalità coesa ed equilibrata. Ciò crea invece ferite gratuite e segnali di svalutazione che il bambino non può interpretare su un piano cognitivo, finendo per leggerli esclusivamente come prove della sua mancanza di valore e di spessore umano.

 

Ed ecco che si allontana il bambino dal lettone dei genitori, non lo si consola se piange, non lo si rialza se cade, non si accetta il suo dolore o i suoi lamenti, lo si induce ad essere forte, lo si incalza ad “essere uomo”(eccezion fatta per le bambine) e gli si costruisce intorno una corazza da gladiatore che poi diventerò invece quella fortezza personologica da cui faticherà ad approcciarsi al mondo in modo autentico, costruttivo e disincantato. In pratica, nel tentativo di costruire guerrieri invincibili, proprio nel nome di queste inappropriate convinzioni, si ottiene l’effetto paradossale di sviluppare personalità insicure, inquiete e terrorizzate dal vivere, e che per sopperire dai pericoli ricorrono alla forza del branco o si mascherano di bullismo e di violenza.

 

Naturalmente, coloro che avranno invece una maggiore tendenza temperamentale introvertita, parteciperanno a tali giochi drammatici ricoprendo il ruolo delle vittime, perchè nel frattempo avranno imparato la paura di essere felici, e l’inconcepibilità del pensare una vita di successi e di soddisfazioni.

Su questi concetti si gioca fondamentalmente la salute delle relazioni umane, con tutte le conseguenze sul piano sia delle micro-relazioni (rapporti di coppia, alleanze amicali, relazioni in famiglia) che sugli effetti prodotto dalle relazioni sociali allargate che interferiscono con la qualità di vita di ciascuno di noi e del contesto comunitario e macro-politico a cui apparteniamo.

 

È però decisamente impressionante quanto sia sottostimata e forse oltremodo ignorata l’importanza straordinaria di questo argomento, dal momento che ne dipende l’equilibrio dei rapporti umani, il benessere generale e la pace sociale. La nostra civiltà sembra ormai essersi imprigionata dentro un pantano di soluzioni confuse e inconcludenti. Vi è la tendenza ad annaspare nel ginepraio di teorie risibili e luoghi comuni, anche (e forse soprattutto) da parte delle istituzioni politiche, che come è noto sono ampiamente co-responsabili dell’inarrestabile degrado umano e della caduta regressiva verso l’esaltazione dell’egoismo e della ostilità alle regole elementari della convivenza.

 

Dunque, ciò che occorre affrontare alla base di tutto è il rapporto con le proprie convinzioni, con l’impegno di ridimensionarne la portata eventualmente assolutizzante, prima che questa degeneri verso la cronicizzazione di un sistema di idee e credenze su cui poi diventa difficile un percorso di destrutturazione e attiva riorganizzazione.

 

È necessario allenarsi ad utilizzare in modo flessibile le nostre capacità di rielaborazione e significazione del mondo, procedendo ad un efficiente e puntuale re-mapping, in cui verifichiamo la credibilità delle nostre ipotesi e le ri-testiamo in un contesto nuovo ed aggiornato, nel tentativo soprattutto di cogliere le opportunità di crescita, guardando agli ostacoli come sfide affrontabili e superabili, come possibilità di sperimentarci, imparare, supplire alle nostre mancanze e potenziare le nostre risorse. L’approccio con cui si procede a confrontarsi con la difficoltà e con l’errore è dunque fondamentale proprio per impostare il percorso più adatto nel trasformare l’esperienza della sconfitta in qualcosa di rimediabile e gestibile anche dal punto di vista dell’impatto emotivo ed esistenziale.

 

Sarebbe opportuno conoscere e dunque prevenire i nodi critici avanzati da quell’abitante genitoriale interno di cui si è parlato nelle righe precedenti. Questi potrebbero infatti comportarsi come dei veri e propri virus letali in grado di bloccare l’atto di volontà e il senso di iniziativa, a nostro irriducibile svantaggio. Un elenco sufficientemente esaustivo degli stessi potrebbe essere il seguente:

 

.) Ricerca e dipendenza dall’approvazione. Viviamo in una società che mercifica col nostro silenzio/assenso i nostri dati sensibili. Il livello di intrusività e invasività raggiunto per mezzo delle nuove tecnologie ci ha abituati ad una sovraesposizione del Sé. A tal punto che ormai si permette ad una moltitudine di sconosciuti di “guardarci dal buco della serratura” per far conoscere pubblicamente finanche la propria vita intima. Questo virtuale abbattimento di barriere, se ancora da una parte può essere vissuto come una rischiosa condivisione, dall’altra diventa anche una ghiotta vetrina per poter raccogliere e collezionare approvazione, testare la propria capacità seduttiva e di attrazione del prossimo, godere con autocompiacimento nel sentire il potere di guadagnare lo sguardo e l’interesse dell’altro. Come si direbbe in analisi transazionale, insomma, è un modo per raccogliere e fare incetta di una dose impareggiabile di carezze.

Tutto ciò ha però anche il suo rovescio della medaglia, dal momento che l’attenzione altrui può diventare una vera e propria droga emozionale, in mancanza della quale si entra in astinenza e si potrebbe fare qualunque cosa pur di riottenerla.

Si apre il proprio blog, il profilo social o la posta elettronica con l’attesa spasmodica che qualcuno ci abbia cercati, od abbia cliccato il “like” alla nostra foto in cui ci siamo messi in posa, o meglio ancora ci abbia lasciato un commento.

 

.) Se faccio valgo. Un altro elemento del contenitore di credenze (beliefe system) consiste nel vincolare la percezione positiva di sé ad una precisa e specifica competenza da dimostrare, e magari grazie a cui l’ambiente sociale già risponde con favorevole approvazione. Questo però limita la visione di sé all’area del “saper fare”, per cui l’accettazione di sé diventa condizionata e non legata invece al semplice fatto di essere e di esistere. Polarizzata sul versante del rapporto con l’alterità, si rischia di pronunciarsi in modo poco indulgente, avanzando al prossimo richieste troppo pretestuose.

 

.) È sempre colpa del nemico. Tale condizione rappresenta una pericolosa proiezione circa l’attribuzione di responsabilità di ciò che accade, verso una compagine considerata per qualche ragione avversa e la cui esistenza diventa il motivo che anima il soggetto ad impegnarsi verso la scomparsa e l’annientamento del suo nemico a cui imputare ogni colpa. È un meccanismo di locus of control esterno che da luogo al noto stratagemma del capro-espiatorio, le cui ricadute storico-epocali ci ricordano genocidi e persecuzioni a danno di una “razza” individuata come spregevole e responsabile di ogni male conosciuto.

 

.) Malessere per la discrepanza fra desiderio e realtà. Fra le perniciose convinzioni inerenti alla costellazione del beliefe system, esiste l’incapacità di riconoscere i propri limiti, in quanto invasati di un egocentrismo che non può accettare la presenza di ostacoli oggettivi fra le proprie esigenze ed i prospettati traguardi. Il soggetto si prodiga in reazioni catastrofiche, nel tentativo di assoggettare il mondo ai propri capricci, e con l’impegno di rimuovere cose e persone che rappresentano la barriera fra i suoi obiettivi e le sue istanze considerate irriducibili e non negoziabili.

 

.) Fatalismo e decentramento della responsabilità. Come già spiegato in alcuni punti e passaggi precedenti, con tale convinzione si fa riferimento all’incapacità di poter ascrivere anche a se stessi l’influenza esercitata circa gli avvenimenti succeduti. Il soggetto si affranca in questo modo dall’orrore di assumersi delle responsabilità e di rischiare del proprio mettendosi in gioco, dissolvendo o trasformando le proprie rigide credenze sul mondo. Il fatalismo preventivo diventa un modo per anticipare e gestire l’esperienza del fallimento, imputando la colpa ad un destino ingiusto e disgraziato che impedisce il riscatto e la rinascita.

 

.) Attesa di peggioramento. Simile al virus precedente, si pone proprio in continuità con lo stesso, dal momento che gli eventi vengono percepiti dentro una comoda cornice in cui vigono aspettative di peggioramento. Questo solleva il soggetto dal tentativo di far fronte ad un evento che secondo questo viziato ragionamento non può essere affrontato e cambiato. Si apre e si rafforza così l’atteggiamento passivo della rassegnazione e della rinuncia a pensare e ad agire.

 

.) Fuga dai rischi. Se tutto viene inquadrato in funzione dei rischi, ci si autoassolve dall’impegno di mettersi alla prova, magari scambiando questo comportamento di ritiro addirittura come saggio e ponderato. Il risultato ottenuto coincide con l’evitamento da ciò che per una non ammessa e non riconosciuta paura è considerato non affrontabile.

 

.) Delega del Sé. Il progressivo e continuo allontanamento dalla ricerca di un problem-solving e di una verifica pratica dello stesso, sviluppa nel tempo un atteggiamento di discolpa e di delega, da cui matura un legame a doppia catena da un soggetto a cui viene stabilmente consegnato il ruolo di guida, e da cui si finisce per dipendere, in posizione di sottomesso e di non agente.

 

.) Sono ciò che ero. Uno dei modi decisamente più fruiti dalla maggioranza è la classica identificazione alle vicissitudini del passato. Si tratta a tutti gli effetti dell’uso strumentale e paralizzante della ben nota impostazione ortodossa freudiana, secondo cui gli inevitabili eventi traumatizzanti del passato ci intrappolano dentro una disperata ed improbabile ricerca di equilibrio e di maggiore efficienza, senza però riscuotere troppi successi o risultati confortanti. Ricorrere alla tradizione, al perturbante remoto, all’idea implacabile dell’impossibilità a cambiare, significa negare il ruolo della volontà, dell’atto trasformatore e riparatore, significa espungere dall’individuo il diritto e la facoltà di dichiararsi in modo autentico, e di testimoniare se stesso in funzione di un nuovo ordine di bisogni più congruenti al suo tempo storico e alla verità profonda di sé.

 

.) Inadeguatezza da mancato problem-solving. Dal momento che forse non tutto potrà essere facilmente affrontato o risolto, dovrà pur emergere la capacità di considerare ed accettare con buona pace i propri limiti, senza per questo sentirsi falliti, stupidi o incapaci. Occorre imparare a differenziare l’errore come azione, dalla percezione di essere sbagliati, ovvero senza mettere su un piano di uguaglianza il fatto di aver commesso una manchevolezza o di possedere imperfezioni, con l’errata concezione di sé come esseri che contengono ontologicamente l’errore, che sono fatti di errore, come se l’errore fosse una sostanza con cui esserne rivestiti e invischiati.

 

Il superamento di tali contaminazioni letali può rappresentare un proficuo beneficio per se stessi e quindi anche nella rete dei rapporti costruiti con gli altri. Ricostruendo un nuovo ordine di rappresentazioni e di contatto col mondo, aggiornato e corrispondente ai nostri veri e profondi bisogni, si potrà augurarsi di dare un costruttivo contributo da cui ricavare un maggiore stato di benessere, da apportare in una società civile che sempre più ha bisogno di generare relazioni significative e feconde di nuovi paradigmi da cui fondare l’alba di una nuova umanità che finalmente si prenderà cura di ciò che oggi, e non senza evidenti e incresciose conseguenze, viene purtroppo ignorato per via dei rischi percepiti nel mostrarsi fragili, diversi, veri ed autentici.

 

Nuccio Salis

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