È CAPITATO ANCHE A ME! Avvertire e gestire le risonanze nel rapporto col cliente

Inviato da Nuccio Salis

empatia tra bambini

È possibile che si verifichi l’espressione di contenuti e processi emozionali che ci inducano ad identificarci nei vissuti esperiti dal cliente?

Forse la domanda è alquanto retorica, ma serviva pur un’introduzione diretta al tema in oggetto. Trattandosi appunto di un fenomeno di riconoscimento su stati affettivo-emozionali sperimentati dall’altro, tale condizione allontanerebbe lo specialista che offre il servizio dell’aiuto da una posizione di piena e rigorosa empatia, per renderlo ciecamente avulso da una proiezione incontrollata che finisce per farlo aderire sulla medesima piattaforma psichica della persona con cui ha instaurato la relazione complementare.

 

Una simile situazione è nota per avere la forza di pregiudicare la qualità nell’erogare il processo di aiuto. Per poter infatti essere in grado di mettersi a disposizione del cliente, è necessario sì avere ben aperto il canale col quale si intercettano e si accolgono le dinamiche emozionali della persona a cui si rivolge ascolto comprensivo, e al tempo stesso lo si deve fare in un certo senso ‘schermati’ da eccessive inferenze potenzialmente intrusive e disturbanti, che possono far perdere al counselor i criteri per un corretto equilibrio, aplomb e neutralità dello sguardo.

La stabilità emotiva dell’operatore è un fattore fondamentale per un regolare e salutare svolgimento del percorso ispirato od orientato mediante modelli di counseling. È attraverso una permanente rappresentazione differenziata fra il proprio vissuto e quello altrui, che il counselor preserva sia se stesso da eventuali ed eccessive invasioni di flussi emozionali incontrollati e disorganizzati che pervengono dal cliente, e al tempo stesso tutela quest’ultimo da altrettante deleterie esperienze di identificazione fusive e speculari, provenienti dai feedback del professionista.

Pertanto, la qualità del rispecchiamento è essenziale da parte dell’operatore, che deve essere capace di comprendere quanto di ciò che il cliente che gli sta rimandando è materiale sul quale può sostare e gestire con sufficiente efficacia e sicurezza, e quanto invece mette a rischio la sua funzione di professionista.

Un livello di coinvolgimento eccessivo può facilmente evocare risonanze interne da parte del conduttore dell’esperienza di aiuto, il quale, sentendosi turbato dalle suggestioni emozionali che gli vengono inviate, viene meno al suo ruolo di osservatore e partecipante caldo ma neutro, aperto ma protetto. Quando quella diga di contenimento si rompe, l’esperienza altrui tracima dentro la nostra, rompendo le condizioni per una funzionale restituzione e rispecchiamento degli stati interiori, condotta con accurato rigore e moderato distacco.

Tale ruolo configura d’altra parte il grado di efficienza nella prestazione d’aiuto. Una restituzione sobria ed equilibrata è necessaria, affinché il cliente si riappropri della sua storia e di un riepilogo della sua vicenda che possa egli stesso sottoporre ad una nuova ricognizione critica, a chiarimento e rilancio per una funzione su cui dapprima non aveva riflettuto.

In questa precisa assunzione di ruolo, il counselor ricorda la teoria delle rèverie materna dello psicoanalista Wilfred Bion (1897-1979), il quale spiega che per poter edificare progressive ed evolute strutture di pensiero associato all’esperienza cosciente, è prevista una precedente fase che consiste nel ricevere da bambini piccoli sensazioni e stati emozionali di grezza fattura, filtrati e restituiti da ciascuna madre. Si tratta cioè del passaggio dagli elementi Beta agli elementi Alfa. In pratica, da una rigida, primitiva e rudimentale forma psichica, si procede verso la formazione di un’architettura personologica in grado di gestire e riconoscere variabili più complesse e superiori per qualità strutturale e funzionale.

Pertanto non è auspicabile che al cliente manchi una “controparte vicariante”, rappresentata in vivo dal counselor, il quale non potrà sottrarsi da mostrare la necessaria competenza nel saper orientare il cliente verso quelle dimensioni del Sé (legate alla sua quotidianità e alla sua vita cosciente) che occorre consolidare, fabbricare e potenziare mediante slanci motivazionali più costruttivi. IL professionista deve incarnare tale esempio e renderlo visibile ed esperibile in seno all’esperienza concreta del cliente.

Sarebbe preferibile, che un primo accorgimento consistesse nel non affermare “è capitato anche a me!” Ciò provoca decentramento dalla personalizzazione dell’intervento ed allontana il focus di lavoro, che deve riguardare sempre un tema della vita del cliente.

Si riduce ed anzi si annulla l’asimmetria che definisce la natura di un rapporto professionale, come un necessario squilibrio di risorse senza il quale non si potrebbe per l’appunto attivare la relazione di aiuto. In pratica si corre il rischio di non venire più investiti di fiducia da parte del cliente, il quale non sarà facilitato nel riconoscerci il ruolo. Egli ha infatti bisogno di avvertire una guida sicura, accogliente ma rigorosa, comprensiva ma solida.

Tale situazione implicherebbe inoltre una regressione emotiva e comportamentale da parte del counselor, che invece deve mostrare tutta la sua maturità esperienziale e professionale. Decadrebbe lo strumento dell’empatia, che oltre ad essere una qualità umana, nel caso specifico del counselor è un requisito indispensabile della sua formazione e del suo equipaggiamento tecnico ed operativo. In sintesi, l’empatia lascerebbe il posto al prerequisito base del contagio emotivo. Tale caduta rappresenta un ritorno verso atteggiamenti e forme dell’agire che non sarebbero adattive nel qui ed ora delle contingenze presenti.

Naturalmente, rientra tutto nella liceità dell’umano vivere e sentire, e l’estemporaneità degli eventi che possono determinare tale esperienza non può essere di certo prevista e controllata. Un simile spaccato esistenziale è stato descritto ad esempio nel film ‘La stanza del figlio’, nella scena in cui lo psicoanalista interpretato da Nanni Moretti riesuma il suo straziante dolore della scomparsa del figlio, in un pericoloso e invischiante gioco di proiezioni con i pazienti, coi quali dovrà interrompere il percorso di lavoro.

IL punto consiste dunque nel rendersi conto di quando si sta sviluppando una simile circostanza, e provvedere anche ad evitarla radicalmente, se necessario.

La permanenza di una tale condizione si rivelerebbe difatti oltremodo rischiosa e del tutto inconcludente. Il cliente è probabile che si diverta proponendo il suo ruolo all’interno di un meccanismo manipolatorio (p.e. i giochi transazionali, secondo l’ottica dell’AT), e ciò spingerebbe lo specialista verso il margine del baratro del burn-out, cioè la sindrome da affaticamento ed esaurimento motivazionale da parte del lavoratore impegnato nell’ambito sociale e sanitario.

Ciò accade quando l’operatore è poco preparato sul piano strumentale, poco dotato di contromisure in grado di contenere l’esondazione di tale precipitato emozionale, e quando utilizza forme di condivisione empatica di tipo parallela, cioè con ristrette ed insufficienti risorse di lettura e interpretazione corretta del vissuto altrui, quindi in termini cognitivi e logico-causali.

In breve, nell’operatore sono presenti ancora residui egocentrici che fanno capo alle forme più arcaiche e primordiali del contatto interpersonale, e molto probabilmente ferite non del tutto rimarginate e parti di sé non ancora rivelate, rinnegate ed occultate da certi disordini interiori non ancora scoperti o risolti.

A seguito di questi elementi tirati in ballo, l’accorgimento per eccellenza che il counselor può adottare consiste nella cura di sé come strumento principale di confronto e di colloquio.

Una rigorosa e continua formazione è l’essenziale fattore chiave a cui affidare la qualità del proprio agire professionale, nel tentativo di rimanere in condizione di efficacia (senza escludere la rinuncia o l’invio) anche quando le tempeste emotive possono inficiare una buona opera.

Prendersi cura di questo aspetto, d’altra parte, significa riconoscersi dentro un profilo di efficienza ed onestà deontologica e professionale, requisiti necessari per formarsi come operatori capaci e responsabili. 

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