il futuro, ansia dell'ignoto, vedere e ...


il futuro, ansia dell'ignoto, vedere e ...

            Ignoto resta o quasi, il futuro, per ogni essere vivente sulla terra e, benché la specie umana abbia come insita nel proprio DNA l'ansia di conoscerlo e disvelarlo e per questo si sia affidata da sempre a indovini, divinatori, àuguri e alle interpretazioni di segnali  premonitori tra i più diversi, siamo tutti consapevoli che la conoscenza chiara e piena del futuro ci sfugge. Nell'impossibilità di conoscere, pre-vedere e quindi di intervenire a modificare il futuro, ci siamo addirittura convinti che questo nostro limite sia un bene, sì insomma una forma di difesa e quasi di protezione rispetto a ciò che accadrà; non poter pre-vedere significa anche inevitabilmente non dover provvedere e quindi alleggerisce le nostre responsabilità, aumentando quelle del Fato, del Destino, del Caso o della Provvidenza Divina. Così, rinunciamo quasi volentieri ad appropriarci del merito di quanto di positivo ci accade ammettendo coerentemente con noi stessi che poco dipende da noi e molto da forze e congiunture esterne favorevoli, pur di trarre, da questo nostro sentirci impossibilitati a gestire il futuro, il gran vantaggio di poter attribuire ogni male a incontrollabili malevole energie esterne negative. Una sola citazione di ben nota eloquenza, è sintesi perfetta per quello che altro non può essere che dono degli Dei:Certe igitur ignoratio futurorum malorum utilior est quam scientia [Cicerone, De Divinatione Libro II capitolo 9].

 

            Se questa può verosimilmente essere la dinamica del comportamento umano, è, paradossalmente vero anche il contrario, come per quasi ogni esperienza che ci riguarda: conosciamo anche, cioè, l'ostinazione a ritenerci capaci autori/registi di quanto di bello ci accade e innocenti vittime di ogni accadimento sfavorevole.

            Che non ci sia data conoscenza del futuro è dato implicito nella stessa forma di conoscenza  che ci è propria: per conoscere abbiamo bisogno di riferimenti concreti, di dati che giungano ai nostri sensi, che siano decodificabili e organizzabili dal nostro cervello. Qualche affermazione di Edgar  Morin può illuminarci:

L'organizzazione della conoscenza umana esige il trattamento binario delle informazioni, al momento della percezione o della concezione, l'alternativa binaria dell'esclusione o dell'accettazione e questa discriminazione che organizza e controlla l'uso delle analogie, obbedisce ai princìpi/regole che controllano la conoscenza. Il pensiero umano impone alle percezioni come ai discorsi l'alternativa logica permanente del vero e del falso. La nostra attività cognitiva quotidiana funziona secondo una logica di comprensione/spiegazione, tuttavia, abbandonata alle forze della proiezione/identificazione la comprensione rischia l'errore: l'estraneo e lo strano non possono facilmente essere inclusi e sbarrano la strada alla comprensione. Considerando la condizione umana, dovremmo temere non tanto le insufficienze della comprensione quanto gli eccessi della incomprensione. In tutte le civiltà arcaiche, due modi di conoscenza troviamo,: l'uno simbolico/mitologico/magico, l'altro empirico/tecnico/razionale.

Da una parte -spiega ancora Edgar  Morin- si ha de facto una distinzione tra questi due mondi, dall'altra essi si intrecciano in modo complementare e il pensiero che costituisce il modo superiore delle attività organizzatrici della mente e istituisce la sua concezione del reale e la sua visione del mondo, è ad un tempo uno e doppio, cioè uniduale,  formando un tessuto complesso senza che l'uno attenui o degradi l'altro. Può così instaurarsi la dialogica fra l’apparato conoscente, portatore del già conosciuto (gli schemi innati, le acquisizioni memorizzate) e l’ambiente conoscibile, brulicante di incognite. La conoscenza cerebrale ha evidentemente bisogno degli stimoli dell’ambiente circostante per divenire operante e per svilupparsi. Apprendere non è soltanto riconoscere ciò che, in modo virtuale, era già noto, non è soltanto trasformare l’incognito in conoscenza, è piuttosto il congiungersi del riconoscimento e della scoperta. Apprendere comporta l’unione del conosciuto e dello sconosciuto. Impariamo, quindi, che la possibilità è figlia dell’incertezza. [Edgar  Morin,Il Metodo 3, La conoscenza della conoscenza, '86]

Oltre a ricordarci, come diceva Nietzsche, che il “Metodo” arriva solo alla fine, Morin attualizza il messaggio di Euripide:“Gli dèi ci creano tante sorprese: l’atteso non si compie, e all’inatteso un dio apre la via”.

            Dunque, che sia un privilegio o una condanna/mancanza, non siamo tenuti a esplorare il futuro? Siamo vincolati al Presente e al Passato, quel passato che permane nella nostra mente e nel nostro più recondito angolo d'anima così da presentarsi vivo e attivo per fustigarci o riempirci di rimpianti? Non c'è alcun dubbio che la pressione mediatica spinge in questa direzione  frammentando la nostra vita in attimi di fugace presente, monadi aliene le une alle altre, subito rimosse e riposte non si sa dove, soverchiate da altre che a gettito continuo ci avvolgono e invadono. Non può essere questa la risposta alla nostra ansia di conoscenza, non possiamo ignorare completamente il bisogno di sapere chi siamo, dove vogliamo andare, come possiamo organizzare alcuni aspetti della nostra vita. Se, come è vero, non ci è dato conoscere il futuro, è altrettanto vero che  rispetto al futuro imminente e persino a medio e lungo termine abbiamo la possibilità di plasmare noi stessi, di rivedere la nostra identità, di perfezionare la nostra immagine verso noi stessi e verso l'altro. Vedere il futuro allora sarà avvincente e spettacolare, sarà come veder-si nel futuro e da quell'immagine sempre più definita e ridefinita, precisa e concreta ai nostri occhi e alla nostra volontà trarremo suggerimenti, indizi, strategie organizzative, motivazione per  cogliere opportunità non previste e contrastare malevoli alieni poteri.

            Ancora una volta, il counseling e la PNL possono essere il determinante sostegno per veder-si nel futuro.

 

Cordialissimamente,

Giancarla Mandozzi

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