IL CLIENTE HA SEMPRE RAGIONE? Credenze, proiezioni e fantasie sulla professione di aiuto

Inviato da Nuccio Salis

soddisfazione cliente

Stabilire un efficace e costruttivo contatto comunicativo con chi invia una richiesta di aiuto, risulta il fine per eccellenza di una relazione fondata sul sostegno alla persona. Chi si propone come figura specialistica all’interno di questa dinamica, ha l’obbligo di impegnarsi per dedicare la sua opera ed il suo servizio in una modalità il più possibile funzionale, nonchè di comprovata e verificabile efficienza.

Questo obbligo deontologico e professionale, che distingue una buona offerta di aiuto e ne definisce il livello e la qualità della prestazione, non coincide al tempo stesso con un remissivo atteggiamento di accondiscendenza e compiacenza alle richieste dell’appellante, in quanto soggetto in condizione di bisogno, o anche in quanto cliente pagante.

 

Il counselor dovrà invece tenere la rotta di un percorso che concerne di una sua linearità, di una sua cornice di senso e di una struttura che non possono e non devono essere travisati a causa di un ingenuo equivoco fra il manifestare apertura, accoglienza e disponibilità e d’altra parte addurre ogni ragione e giustificazione al comportamento esperito dal cliente.

Il counseling prevede anzi che ciascun individuo che partecipa volontariamente a un percorso di crescita e problem-solving, si attivi per reperire con i propri sforzi le risorse interiori a cui potenzialmente può ricorrere, quindi accettando una dialettica con se stesso che ammette ed incoraggia la ristrutturazione di sé. E tale progetto centrato sull’autonomia non può certamente essere affrancato da inevitabili episodi e fasi di destabilizzazione, necessari a de-costruire il proprio orizzonte interno di credenze, valori e abitudini, e ricostruirsi partendo da una nuova piattaforma di obiettivi, opportunità e principi non dapprima considerati. Tali passaggi sono essenziali dentro un percorso autentico e seriamente centrato sulle richieste e le istanze di evoluzione e trasformazione.

In pratica, tecniche colloquiali come l’ascolto empatico, ad esempio, che propende verso la ricerca di una reciproca e idonea risonanza con il cliente, è sì un fondamentale e irrinunciabile strumento di avvicinamento e alleanza fra specialista e cliente, ed è al tempo stesso anche l’espediente che prepara il terreno comune dialogico da cui il cliente assume nuovi punti di vista, proprio in forza del rispecchiamento promosso dallo specialista che dispensa l’aiuto alla persona.

Questo principio, oltre a dare al counseling una consistenza scientifica ed uno spessore che gli conferisce utilità pratica e creazione di valore, orienta la stessa pratica di aiuto dentro una sequenza a blocchi che è sostanziata dal criterio dell’accompagnare verso un cambiamento possibile. E nessun tipo di cambiamento può essere auspicabile se non ci si prende cura delle proprie incongruenze, dei propri aspetti critici, dei propri nodi ai quali permettiamo di bloccare l’iniziativa verso azioni più adeguate e risolutive. Rileggere se stessi e la natura del contesto dentro il quale si agisce è una condotta che il counselor è tenuto a sollecitare, certamente tenendo conto dei tempi, del livello motivazionale, del gradiente di impatto emozionale sul cliente e sulla rispettiva ed effettiva carica di motivazione intrinseca.

Ciò consegna allo specialista il difficile compito di orientare il cliente, qualora si rivelasse necessario, verso il riconoscimento di quegli aspetti problematici, irrisolti o non affrontati, che producono nel soggetto quei comportamenti seriali ormai obsoleti, stereotipi e inefficaci, dai quali si ottengono soltanto fallimenti e situazioni inappropriate, e nella fattispecie non pertinenti a una nuova mappatura di bisogni che si comincia ad avvertire, e da cui si è chiamati per farci i conti.  

È noto che per affrontare in vivo tali componenti delicati del proprio processo esperienziale e maturativo, il counselor dovrà agire evitando di essere precipitoso  e prematuro. Dovrà saper usare molto tatto, affinare l’ascolto, stimolare l’autorivelazione dell’interlocutore mediante tecniche colloquiali non invasive, e finalizzare il tutto verso quella tappa che prevede che il cliente acquisisca e prenda atto dei punti focali da affrontare. Questi dovrà essere placidamente condotto verso quel traguardo, abituandolo a risistematizzare le sue coordinate durante l’itinerario che egli contribuirà a tracciare in merito alla sua reale richiesta ed al bisogno essenziale di cui è portatore.

Diventa decisivo ed essenziale , a tal punto, pensare l’intervento come un piano di rinascita per un individuo che ha deciso responsabilmente di fronteggiare alcuni aspetti cardine del suo percorso esistenziale. E ciò non può essere fatto ricorrendo soltanto a strategie di rimando essenzialmente neutre, o quasi nulle in riferimento alla loro forza di sollecito verso un nuovo agire. Il counselor ha bisogno anche di un corredo strumentale adeguato e misurato sulle reali esigenze della persona in trattamento. Per fortuna questo equipaggiamento esiste, ed è ormai collaudato ampiamente nei diversi setting, scuole e indirizzi di counseling, e consiste principalmente in tutte quelle tecniche adatte a riportare il cliente ad un contributo costruttivo, in cui partecipa aiutando a sviluppare in se stesso chiarezza e completezza argomentativa.

Non tutti i clienti, infatti, riportano narrazioni già ordinate, credibili o esaustive. Spesso, piuttosto, si rivela necessario “aggiustare” le storie riportate dai clienti nello studio. Quando le cronache di vita sono abbondanti e prolisse, possono essere caratterizzate da enfasi, iperboli o altre figure ed espedienti retorici intrisi di probabili particolari fuorvianti o pittoreschi. In questo caso, l’interesse principale del cliente sembra coincidere soltanto con il parto liberatorio del materiale psichico fino ad allora tenuto dentro, per consegnarlo come un fiume in piena ad una persona disposta a contenerlo.

Molto spesso, dietro questo atteggiamento si nasconde quel perseverante e comune equivoco che colloca un professionista dell’ascolto e della salute psicologica dentro una irrimediabile cornice di raccoglitore passivo delle altrui frustrazioni. Una sorta di spazzatutto che bonifica i malesseri che gli vengono riconsegnati, facendoli propri per il bene altrui. Una sorta di calderone vuoto da riempire. Tale funzione gli è evidentemente ascritta a seguito di resistenti rappresentazioni anacronistiche che ogni bravo professionista della relazione di aiuto deve contribuire a rimuovere e ridimensionare, spiegando chiaramente la natura e la funzione del proprio ruolo e quindi indicando finalità che difficilmente vengono contemplate da chi conserva una siffatta immagine banale dello specialista preposto al sostegno alla persona.

È quindi opportuno identificare la tipologia del cliente che riporta in situazione questa raffigurazione del tutto impropria nei confronti di chi gli offre sostegno. Di conseguenza aprire uno scenario di collaborazione e di attuazione di un programma discusso e condiviso con l’interlocutore medesimo, destinato a beneficiarne. È necessario cioè sfatare ogni equivoco e ottenere una zona di incontro fra counselor e cliente che si riveli come produttiva e ad elevato rendimento.

Si tenga in ciascun caso presente che al counselor, come soggetto privilegiato all’interno di questo specifico rapporto, è deputata la responsabilità di provvedere a creare quelle eventuali contromisure per impedire che il cliente esuli dal suo ruolo, e in una fase avanzata dall’impegno concreto di realizzare i suoi compiti evolutivi. Affermato questo, ciascun cliente va condotto a comprendere la natura e la finalità di un rapporto così speciale, perché vengano esorcizzati quei fantasmi interiori che possono soltanto disturbare la serietà e l’autenticità di un percorso che richiede impegno e senso di partecipazione.

Come descritti in letteratura dallo psicoterapeuta Robert Langs (1928 – 2014), esistono tante tipologie di espressione di sé nei clienti, quanti sono i loro rispettivi ‘campi rivelatori degli stili comunicativi’ (cit.), ovvero complesse modalità riscontrabili durante la dinamica del colloquio.

Penso che ciascuno abbia l’esperienza di avere almeno incontrato i seguenti che chiamerò: a) il divagatore, b) il proiettivo, c) il mistificatore.

Il primo, come già accennato, è colui che racconta, sciorina fiumi e insalate di parole con trame spesso intricate, romanzate o confuse, che sembrano non avere ordine e senso. Prendendo in prestito il linguaggio sviluppato dallo psicanalista Wilfred Bion (1897 – 1979), è come se tale cliente rimanesse verbalmente ad un livello beta, dal quale poter osservare e ricevere esclusivamente materiale grezzo, rudimentale e primitivo, che induce allo sforzo auspicabile di convertire in elementi alfa, di maggiore rigore, comprensibilità e chiarezza. Costui va aiutato a contenere questo processo di tracimazione logorroica e di abbondanza discorsiva, facendo il punto della situazione nel tentativo di connettere le parti del discorso che possono costituire una trama di senso compiuto, finalmente accettabile, lucida ed intelligibile anche per lo stesso cliente. In questo senso il riassunto può essere disposto come una risorsa dialogica che riassesta e rimanda a un senso e una direzione narrativa, e che forse, inevitabilmente, finisce anche per operare scelte e discriminazioni rispetto a un possibile percorso di approfondimento tematico. Di fronte a confluenze di messaggi doppi ed evidenti incongruenze, la sistematizzazione ordinata di un tessuto narrante troppo caotico, diventa un passaggio necessario.

Il secondo tipo è mosso quasi esclusivamente dal bisogno di allentare le proprie tensioni ed alleggerire le tensioni psicologiche ed emozionali a cui è soggetto. Pertanto da luogo ad un rigurgito liberatorio allo scopo di sfogare ciò che gli pesa dall’interno, nella convinzione di passare ad un altro (che tanto è pagato per farlo) la zavorra che esprime il suo disagio personale. Egli scarica tutto ciò che sente, senza filtri o censure, con enfasi emozionali che rafforzano i suoi stati interiori. È importante accogliere e riflettere le sue sensazioni, aiutandolo a fare dei suoi stati d’animo dei preziosi alleati e strumenti di comprensione della realtà, e che al tempo stesso non devono ingannarlo sopraffacendolo e facendogli perdere lucidità. Sostare con il cliente su questo aspetto diventa un vero e proprio compito rieducativo e di alfabetizzazione emozionale, che apre ad un training di ricerca e di esplorazione di sé circa l’uso corretto e funzionale delle proprie dinamiche emotive sia di base che secondarie (sentimenti).

La terza tipologia descrive invece colui che puntualmente offre una versione riveduta e (s)corretta delle sue vicende biografiche. Le opzioni trasformative seguono i percorsi più fantasiosi e più idonei a soddisfare la realtà interiore desiderata, rispetto a quella non realizzata. Spesso le sue falsificazioni, legate a bisogni compensativi e di riequilibrio interno, devono comunque essere rimandate e restituite con la loro carica di incongruenza e con un invito più o meno implicito alla chiarificazione. Questo tipo di reinvio della discrepanza  può non essere gradito dal cliente, specie se legato ad una convinzione rigida e radicata nella sua articolata struttura di costrutti interni.

Di fronte a tutte queste personalità si tenta comunque di richiamare la loro volontà di autocontrollo nel loro interesse, con il risultato probabile di ottenere la fuga. È un finale da mettere in conto, ma ciò è da considerare nell’interesse dell’autenticità della relazione e della credibilità scientifica del counseling, che in virtù della sua attendibilità deve mettere al primo posto la reale fattibilità di un percorso pianificato mediante la concertazione senziente e consapevole del cliente, e che non può accogliere personalità perseveranti nella loro aperta obiezione, resistenza e rifiuto nei confronti di un trattamento di cui sentono di non poter reggere l’esperienza della revisione di sé, un percorso adatto non a caso soltanto a coloro che propendono verso un cambiamento personale, e che reputano tale percorso ormai non più rimandabile ma necessario, e dal quale sanno di potersi attendere soltanto il meglio, in relazione anche all’investimento che ciascuno ripone nella strada che conduce alla piena e completa autonomia di sé, fiduciosi di come soltanto riprendendo le redini della propria esistenza  si possano manifestare le migliori espressioni di sé e delle proprie attitudini, nonché di tutte le nostre straordinarie risorse e potenzialità.

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