Lo Spazio del Counseling


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Io Sono Colui che SonoIo Sono Colui che Sono - Dipinto di Stefania Innamorati
Relazione come strumento professionale Il relazionarsi con l’altro si può configurare come strumento professionale per la risoluzione di problematiche. La relazione d’aiuto, in termini professionali, non è solo un incontro più o meno empatico, ma risponde ad una precisa domanda d’aiuto. Da un lato, il cliente chiede: “Mi aiuti ad individuare il tipo di problema che io non ritengo individuabile, e che non so gestire.”

Da un lato, il cliente è cosciente di una sua necessità e decide di precisarla. Dall’altro, il counselor si dispone ad accogliere una tale domanda di aiuto, esercitando capacità, professionalità e competenza. Il counseling si configura perciò come una relazione professionale che si instaura in un clima di fiducia reciproca tra counselor e cliente, all’interno di una domanda e di un’offerta, dove si presume di poter risolvere la problematica che il cliente presenta. Il counselor accoglie prima di tutto la persona e poi il suo problema.

All’interno della relazione d’aiuto, il counselor ascolta il cliente che presenta una storia in cui parla di ciò di cui è consapevole, ma lascia anche delle cose non dette. Il counselor non ha la pretesa di pensare che la persona non stia esprimendo una verità; in ogni caso, non si ferma al livello di verità narrata dal cliente, al suo esplicito, ma cerca nell’implicito, nel non detto: ascolta attentamente in modo da discernere quello che l’altro dice e non dice. Per cui l’apprendimento e l’addestramento del counselor sono indirizzati ad usare l’implicito del cliente

In questa modalità relazionale, il cliente non è l’oggetto passivo dell’intervento. Al contrario: è lui che ha scelto di comunicare, e ci chiediamo: “Perché ha scelto di farlo? Cosa mi sta dicendo a livello analogico? Si sente minacciato, controllato? Recepisco le sue domande? Non le giudico, sono interessato a capire qualcosa del mio cliente.” Si avvia così un processo di comunicazione tra due soggetti.

Inoltre, il counselor non esplora il cliente, ma riformula, ripropone alla persona il problema esplicitando l’implicito, e lo aiuta nell’esplorazione della propria esperienza. Le domande del counselor sono quindi semantiche (1) (es. In che senso? A cosa si riferisce quando…? Mi può spiegare meglio?), per agevolare il cliente a dare significato alle sue parole, e formare anche una base comunicativa tra lui e il cliente.

La riformulazione non è però interpretazione, non è spiegare al cliente quello che lui non comprende, e non è un consiglio (ciò non differirebbe dai consigli di qualunque altro). Infatti, un consiglio si basa sull’esperienza di chi lo propone, potrebbe essere intrusivo; non è una costruzione insieme, ma è a senso unico: dal consigliere al consigliato. Il cliente chiede prima di tutto di essere ascoltato, non tanto di ricevere consigli.

Allo stesso tempo, l’attenzione del counselor è rivolta al proprio atteggiamento interiore: deve essere consapevole dei sentimenti che prova in quel preciso momento nei confronti del cliente: sconforto, rabbia, delusione, gratificazione, difesa, ecc. In questo modo, il counselor assume un atteggiamento di neutralità rispetto alle proprie emozioni, e le usa come dati informativi interiori nella gestione della relazione.

Al centro del colloquio rimane comunque e sempre il cliente con la sua soggettività. Il counselor non si pone come l’esperto della soluzione ma come competente nella relazione d’aiuto, e non accetta delega di responsabilità dal cliente. In altre parole, non si sostituisce al cliente per prendere le sue decisioni. Nello spazio del counseling, il counselor e il cliente aprono nuove ipotesi da esplorare, nuovi spazi e strumenti relazionali nella risoluzione di situazioni specifiche.



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