‘NORMALI TROPPO NORMALI’. Chi sono gli iper-adattati nel mondo contemporaneo

Inviato da Nuccio Salis

gente normale 

Quando si fa riferimento alla relazione d’aiuto, diviene quasi automatico richiamare un concetto di sostegno alla persona con condizioni meno facili o poco favorevoli. I soggetti destinatari dell’intervento, e che colpiscono in genere l’immaginario collettivo, sono pensati come individui fragili, con poche risorse personali e residue possibilità espressive di autonomia. Tutto questo evoca da sempre il prototipo ricorrente di un soggetto caratterizzato da varie forme di deficit e aspetti disfunzionali, e che viene perciò percepito sulla base della sua discrepanza fra lo standard sociale mediamente conosciuto ed il suo livello di capacità di risposte adattive all’ambiente circostante.

La difficoltà a realizzare strutture di reazioni che favoriscano l’equilibrio omeostatico, come aggiustamento alle richieste dell’ambiente, è di solito utilizzato come parametro principale per distinguere la presenza di una o più aree di problematicità in un soggetto osservato. 

In realtà, la questione dovrebbe essere quanto più complessa di come appare, dal momento che, innanzitutto, non risulta sufficiente quantificare e misurare un livello ‘oggettivabile’ di menomazione, per soddisfare la conoscenza dello stesso. Il rapporto della persona medesima con la sua forma di limite, infatti, ne definisce la stessa agli occhi medesimi di chi la vive, e che dunque può ridimensionarla per eccesso o per difetto, in funzione di quanto sia in grado di accoglierla, affrontarla e attribuirvi un senso.

Nell’ambito del counseling si potrebbe azzardare di dire che “il cliente è la misura di tutte le cose”.

Molto spesso, si è soliti dimenticare questa importante considerazione in merito alla visione e al vissuto personale del soggetto che si rapporta con una dimensione di sé poco trasparente o funzionale. In virtù di questo principio di economia cognitiva, la società massificata non risparmia mai il proprio imperituro e implacabile pregiudizio: considerare normale chi si allinea ai canoni prescritti e ‘non normale’ chi differisce dalle aspettative uniformate in termini di comportamento, valori, adesione agli usi e alle consuetudini più conosciute e condivise.

E così, il termine di paragone, che secondo questo superficiale dualismo tende ad imperare, è riconosciuto nell’adattamento.

Adattarsi, molto spesso, è il comandamento inappellabile che giunge a chi si manifesta mediante qualità di sé distinte dalle comuni modalità dell’esistere e del manifestarsi.

Nel deficit dell’adattamento, così, si viene a delineare la personalità avvinta da una imperiosa spinta ad uniformarsi, fino a spegnere le proprie specificità.

In pochi, però, sembrano ancora oggi rivolgere la propria attenzione ad una moltitudine di soggetti che sembrano non soffrire mai delle rivoluzioni sociali dentro cui sono inseriti. Essi non modificano se non molto marginalmente, le loro strutture personologiche. Immutabili, tiepidi, si astengono da quanto può avvenire loro intorno, rifuggendo ogni occasione di novità, di cambiamento, di scelta, di potenziamento di sé in termini di conoscenze, competenze e saper essere.

Riparati dentro un algido e apatico immobilismo, essi si accontentano di vivere dentro una corazza inaccessibile perfino a loro stessi, protetti dall’ideologia del ‘normalismo’. Essi sono normali, nel senso che sono iperadattati in un mondo che invece richiede rivoluzione interiore, trasformazione e ridimensionamento profondo delle proprie convinzioni, abitudini, progetti, principi, modalità di relazione e stili di vita.

Il sovradattamento nel quale sono scivolati è lo specchio deformante attraverso cui guardano il mondo, giudicando “strani” e devianti tutti coloro che hanno demolito i vecchi e desueti modelli che li imprigionavano ad una vita priva di orizzonti di crescita e di esplorazione. Questi ipernormali, caricature grottesche dell’uomo sofferente che non sa di soffrire, sono divenuti incapaci perfino di entrare in una relazione di rispecchiamento simpatetico, poiché non considerano più l’alterità, e soprattutto hanno minimizzato il linguaggio dei sentimenti.

Essi non possono contemplare l’esistenza di modelli identitari diversi dal proprio canale di bisogni. E in questo, consiste proprio il paradosso della normalità, che da posizione accusante finisce per essere invece un pieno comportamento antisociale, dove l’alterità fa la sua scomparsa.

Si tratta di una normopatia che si lega ad una alessitimia che impoverisce la comunicazione e l’espressione di sé, portando alla morte della creatività, allo spegnimento della libera iniziativa e dell’atto di volontà costruttivo, all’incapacità di scegliere oltre la piattaforma del possibile.

Essi vivono soltanto se replicano se stessi, se si perpetuano soltanto all’interno di schemi ripetuti, di sequenze prevedibili e ordinate, esattamente come una modalità di tipo autistico. Girando nella ruota del criceto, essi credono di procedere, per l’unica direzione che credono possibile, dentro un mondo che pensano come l’unico esperibile. Ciò coincide con il fallimento dell’essere umano, poiché esalta la disfatta del progetto animico che conduce ciascuno di noi a sperimentarsi e ad apprendere. La dimensione dell’esploratività risulta invece mortificata, e così l’attitudine a procedere secondo curiosità, domande, studio e spirito di ricerca. Nulla diventa più plausibile oltre i dati già acquisiti. Ciò paralizza il soggetto ‘normale troppo normale’ in un corollario di risposte automatiche, programmate al di fuori di esso senza il proprio critico consenso.

Secondo una lettura ad orientamento transazionale, si direbbe che il soggetto ha un Ego Adulto esclusore, che risucchia e parassita energie vitali ad un Bambino Libero che priva di apertura alla vita, ed a cui nega conoscenza di sé e dell’altro sulla base di dinamiche del gioco, del piacere, del rischio contenuto; e che lascia comunque energizzato una parte di Bambino interiore spaventato, passivo, ritirato, iperadattato, intriso di colpe e ferite laceranti.

L’iperadattato può passare inosservato. Colui è la brava persona che si esprime contraria alla vita, ma che non viene notata, almeno fino a quando la sua sofferenza trabocca e con essa la verità inconcepibile agli occhi dello stesso soggetto.

Questo è peraltro il prezzo da pagare per la propria versione della vita antisocratica, poiché colui che ‘non sa di non sapere’, è una vagante e pericolosa bomba ad orologeria, carica di malessere coperto con la maschera della normalità, perverso espediente del più comune (troppo comune) degli esseri umani.

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