ADULTITA’ FRUSTRATA. L’importanza di rilanciare la progettualità del vivere

Inviato da Nuccio Salis

bambino

Che esista una linearità fra esperienze interiorizzate durante la prima infanzia, e seguenti schemi comportamentali adottati anche in età adulta, è un fenomeno non certo negabile. La risultante complessiva delle scelte, degli atteggiamenti e dei valori esperiti durante il periodo “maturo” del proprio cammino evolutivo, viene spesso collegata all’introiezione degli stimoli educativi e delle sollecitazioni ambientali ricevute durante la fase primaria dello sviluppo. Questa tipologia di ipotesi è data per assodata e quasi sempre utilizzata in maniera automatica perfino dalla maggior parte dei “non addetti”. L’approssimazione clinica, in luogo dell’analisi storiografica di un soggetto, se da una parte rappresenta certamente una conquista, in quanto introduce un ampio paradigma di ricerca dai noti risvolti assai arricchenti in relazione al contributo degli approfondimenti scientifici, d’altra parte, se condotta alle estreme conseguenze, rischia di collocare l’idea di essere umano dentro un orizzonte deterministico che si avvince in un criterio di linearità causale che interpreta la vita adulta esclusivamente come riflesso sequenziale delle coordinate psicologiche risalenti ai vissuti sperimentati durante l’infanzia.

Questo errore determina una visione dell’uomo come se egli fosse una sorta di personaggio caricaturale, prevedibile e sprovvisto di margini di possibilità decisionale. Un soggetto sconfitto dalle circostanze fatali, assoggettato ai suoi traumi, limitato dalle sue ferite, ingabbiato nel limbo dei suoi spiacevoli ricordi.

Una tale filosofia non concederebbe nessun accessibile spazio di libero arbitrio, non renderebbe pensabile o realizzabile alcun desiderio di emancipazione o istanza di riscatto. Questa è infatti, in sintesi, la mentalità del rassegnato, di colui che si da sconfitto in partenza, che non intravede alcuna ipotesi di salvezza o di redenzione. E non si tratta certo di rovesciare tale prospettiva offrendo in alternativa le illusioni di un certo ottimismo beota, o di una minimizzazione fuori luogo circa l’esistenza di problemi consistenti e reali. Si tratta piuttosto di uscire dalla rigidità schematica attraverso cui spesso ci si percepisce come riflessi mimetici del passato, ignorando la moltitudine delle esperienze sopraggiunte, e del loro incisivo valore formativo.

Non siamo diventati grandi solo perché siamo allungati di statura o perché ci sono comparsi e poi cresciuti i peli. Pur col peso di un passato avverso, quella tensione trasformativa insita dentro ciascuno di noi, come quell’energia nuova che ci spinge al cambiamento costruttivo, può essere impiegata per indirizzare la nostra vita verso una rotta piena di mete e di obiettivi gratificanti, che ristorano il nostro desiderio recondito di esistere godendo della gioia di esserci, senza colpe, ma anche responsabilmente, e con un sano senso attivo di protagonismo. Il disfattismo freudiano ha avuto storicamente la meglio, ha cioè prevalso sulle convinzioni circa la possibilità di un autentico progresso morale e civile dell’uomo. Certo, tale ragionamento, se condotto su scala collettiva, sembra non privilegiare affatto coloro che hanno delineato una nuova visione dell’essere umano, introducendo il concetto di speranza, innovazione e cambiamento possibile. La differenza sta nel cogliere che tale modello auspicato è solo in parte dato per natura, per il resto è frutto di un sano ed efficace apprendimento educativo. Ciò significa che insieme al concetto di potere trasmutante dell’Io, si affianca quello di responsabilità, competenza etica, capacità di scelta e programma dell’azione. La buona predisposizione, dunque, è da costruire, o meglio educare, e non è lasciata a un ingenuo spontaneismo di matrice rousseauiana. Tale impegno educativo è propriamente assunto anche dal counseling, che si presenta sulla scena del rapporto centrato sull’aiuto, come mezzo di sostegno per guidare il cambiamento intrapersonale secondo una chiave di vera e matura progressione. L’idea di affrancarsi da una visione rinunciataria in merito all’acquisizione di una propria rotta di vita autonoma, è uno dei capisaldi filosofici del counseling, che tende ad incoraggiare nella concretezza, cioè a promuovere azioni in grado di restituire apprezzabili risultati verificabili e motivanti sulla legittimità dei propri scopi esistenziali.

È dunque compito prioritario, per ciascuna persona impegnata in un percorso di autentico cambiamento, uscire dallo schematismo riduzionista che prospetta la continuità pedissequa fra ambiente primario e modelli di approccio esistenziale esplicati durante la vita adulta. Tale convinzione, se radicata, può dare luogo alla cronicizzazione di un personaggio, non di una persona, e di conseguenza può indurre all’inganno autoprodotto che consiste nel vivere agendo un copione stabilito, sfuggente al controllo conscio, quindi manipolatore, persuasivo e seduttore, quando riesce a rendere la routine molto più accattivante, comoda e sicura rispetto alle prospettiva di eventuali nuovi orizzonti dischiusi, da scoprire mediante l’impegno della distruzione del personaggio. Il processo copionale finisce col fondere l’attore col personaggio interpretato, dando luogo a una tale identificazione coprente l’autentica identità dell’agente, che lo stesso avrebbe l’impressione di annientare se stesso, nel qual caso, fosse sollecitato a fuoriuscire di scena e riconquistare la nudità del suo genuino e profondo essere.

Quali difficoltà spettano al counselor, ben si comprende, in luogo di accompagnamento al raggiungimento della consapevolezza, verso chi si offre in discussione per conseguire un obiettivo di tale portata.

Il primo passo da fare, dunque, è quello non tanto di scollegare il passato dal presente, ma anzi certamente sarà pur prioritario riconoscerlo, e fondare su quello il senso identitario del soggetto, tenendo debitamente conto anche dei contenuti biografici del suo percorso. L’epicentro del procedimento, dunque, dal momento che non prevede affatto lo scollamento fra il legame storico del passato e del presente, coniugherà il presente in una dimensione di valorizzazione, dentro cui viene rimandata in continuazione la potenzialità rigeneratrice del qui e ora, rispetto al la e altrove. Quest’ultima cornice spazio-temporale, infatti, non ha la possibilità di essere modificata, e la sua riformattazione mnemonica può avvenire solo a seguito di debilitazioni a carattere senile. Rimane dunque il frame del qui e ora, l’unico in grado di poter attivare quella “tendenza attualizzante”, descritta e decantata da Carl Rogers, o secondo altre espressioni la physis, forza propulsiva interiore in grado di renderci un tutto più complesso della sommatoria delle singole parti.

Ciò che sarebbe saggio fare, dunque, è attivare nell’adulto un modo di funzionare che possa evincere dallo stesso le sue buone qualità di interazione sociale, ed aiutarlo a modulare strategie di adattamento costruttivo. In breve, in alcuni casi risulta proprio necessario ricostruire un programma educativo, che prevede il prendersi cura di quelle aree sottodimensionate che non hanno evidentemente ricevuto adeguate e sufficienti sollecitazioni nel pattern genitoriale conosciuto durante il periodo dell’attaccamento primario. Questa presunta o accertata disfunzionalità, che può verificarsi interessando sia la scarsità quantitativa che qualitativa degli stimoli ricevuti, deve essere presa in considerazione non per soddisfare una non pertinente indagine temporalmente retrograda, ma quanto per rilanciare nel soggetto in trattamento, la possibilità di esplorarsi e riscoprirsi, trovando nel counselor il contenitore adatto per svestirsi della propria vecchia pelle e consentirsi di distruggersi, trovando protezione, comprensione e una fonte di feedback che incoraggiano la prosecuzione dell’opera. L’obiettivo diventa quello di decostruire il personaggio attraverso cui ci si aggancia ad ipotesi di realtà stagnanti, obsolete e produttrici di disagio, per addentrarsi dentro quella finestra che lo psicologo Eric Erickson chiamava l’età industriosa, adducendole il carattere della piena produttività, soprattutto in termini di conquiste interiori, ovvero nella capacità di progettare, porsi obiettivi, generare mete di valore e realizzare percorsi e strategie per raggiungerle e soddisfarle. Se manca questa molla, un soggetto non può entrare in regime di adultità, e rimane fisso alle tappe precedenti, che non usa come impalcature per sostenere i compiti evolutivi seguenti.

Diventa essenziale, dunque, ricostruire o sviluppare ulteriormente la funzione riflessiva, ovvero quella capacità che consiste sia nell’entrare in possesso di una lettura sia intrapsichica che interpsichica degli stati d’animo e mentali altrui, e che ci permette di gestire con profitto i processi relazionali. Tale competenza, consolidandosi nella fase giovanile della vita, dovrebbe essere rinforzata e anche rafforzata dalle esperienze formative dell’adulto, il quale dovrebbe scegliere con proprietà di discernimento ciò che è più congeniale al suo progetto di vita, alla sua idea di persona, di relazione, all’uso che fa dei propri costrutti etici. Naturalmente, queste prospettive e queste capacità non potranno essere riscontrate come totalmente compiute se si fa riferimento alla vita di un soggetto i cui pensieri, stati d’animo e processi emozionali non sono stati compresi, accolti, condivisi, rimandati, considerati all’interno di relazioni con caregivers primari che significano il rapporto educativo di una decisiva pregnanza affettiva. Tale mancanza, spalanca di certo un abisso, ma la percezione di questo vuoto non può diventare il rumore di sottofondo nella vita di un individuo, pena un continuo blocco emozionale che reitera modalità di relazione che rimandano l’idea di inadeguatezza personale, incapacità e sensazione di non meritare amore e attenzioni affettive. Il counselor ascolta il frastuono sordo di questo abisso, e lo riempie di carezze positive, gratuite e incondizionate, conferendogli senso, e sollecitando al contempo nel soggetto quella ricentratura su di se che riscopre la dignità di darsi valore, affrancandosi da ogni dipendenza, guadagnandosi la percezione del diritto a una vita emancipata da un dolore di cui non dobbiamo portare il nostro nome e cognome, perché anche se ci appartiene possiamo scegliere di non chiamarlo in causa nelle nostre scelte salienti, come per esempio la scelta di un partner o di una carriera professionale che include il rischio e l’incertezza.

Recuperare il diritto all’errore e alla gratuità del vivere, svincolati dall’idea di noi inscritta in certi orrori del passato, sono questi i passi auspicabili di coloro che affrontano spesso, da adulti, quella sinistra ed irrisolta amarezza dell’inquieto vivere, derivata da percorsi non completati, sospesi, che attendono di essere affrontati, con la immancabile partecipazione del soggetto interessato, che preme, dalle profondità della sua psiche, nel diventare regista e artefice della propria vita. È quest’ultimo l’auspicio di maggiore rilevanza che legittima non solo un progetto di counseling, ma l’oggetto stesso del suo intenzionale percorso. La finalità maestra resta infatti, in questo caso, il prendersi carico di un’adultità frustrata, affinchè non resti allacciata al giogo di un impasse radicato nel remoto. L’impegno si orienta dunque a preservare la fase più lunga dell’essere umano, affinché non venga sprecata dentro un orizzonte di non senso, ma investita in quanto di più prezioso ciascuno di noi ha: la capacità e il diritto di pensarsi come soggetto realizzato, integrato e responsabile, capace di fruttificare idee e portare a compimento progetti, ravvivandosi nel gusto eterno dell’esplorazione e della ricerca.

In fondo, solo l’adulto che non abbandona il proprio bambino interiore può scoprirsi adulto nel senso più compiuto dell’espressione.

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