IL COUNSELING CHE OSA. Sfide e prospettive di una disciplina in divenire

Inviato da Nuccio Salis

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Cosa dovrebbe distinguere davvero il counseling, rispetto ad altre pratiche operative nella forma dell’aiuto alla persona? Se fin dall’inizio, i confini di demarcazione fossero stati stabiliti con una chiara e inequivocabile precisione, probabilmente si sarebbe dato spazio insufficiente a disquisizioni, strumentalizzazioni, interpretazioni malevole e atti surrettizi nel tentativo di delineare l’identità epistemologica del counseling. Invece, fra verginità scientifica dell’approccio, impreparazione culturale, ricorso abitudinario alle procedure tradizionali e agguerrita ostilità da parte di corporazioni professionali rivendicatrici di istanze in parte anche legittime, tale disciplina fatica ancora oggi ad entrare nel linguaggio comune, e perfino ad essere intravista come possibile risorsa da collocare dentro un quadro di azione programmata in un team trasversalmente professionale.

 

La qual cosa, forse, potrebbe anche avere tutto sommato qualche privilegio; per esempio quello di sottrarre il counselor di entrare a far parte dell’Olimpo degli archetipi suggellati nelle fantasie e nelle rappresentazioni ingenue della collettività, riguardo alle funzioni delle professioni che si occupano del disadattamento mentale. Ne è un esempio pertinente lo psicologo, soggetto continuamente ad essere percepito ora come “il dottore degli scemi”, ora come “lettore della mente e del pensiero altrui”, poi come “impeccabile guaritore di malattie mentali”, fino a “confidente-confessore che capisce tutto ma che per questo è anche in grado di manipolare”.

Gli psicologi, nella mente arcaica della società, che seppur progredita verso forme sociali più complesse, ha comunque conservato un certo carattere marcatamente tribale, in merito soprattutto al sistema dei bisogni e delle proiezioni, investe tutt’oggi una figura come quello dello psicologo, con varie sfaccettature riduzioniste che ne snaturano alla fondamenta il suo identikit, la sua missione e il senso costitutivo e statutario del suo profilo. L’investimento immaginifico lo ammanta di un alone che mescola insieme magia, sciamanesimo, espressione di un bisogno di ingraziare le divinità, affinché si eriga lo scudo all’ira numinosa. In questo senso, lo psicologo diventa il medium che rende possibile il contatto fra la dimensione dell’ignoto e quella del vivere quotidiano, sfuggente comunque alle sole spiegazioni di tipo logico e causale.

Lo psicologo finisce dunque dentro il calderone del neo-totemismo contemporaneo, come prova di una riluttante volontà ad approfondire i connotati scientifici di una professione e di un suo oggetto di studio ricoperto da sempre di un senso del mistico e dell’imponderabile.

Forse, questa resistenza è in parte anche da leggere come risposta alla paura di conoscere e soprattutto conoscersi come singoli, e d’altra parte sembra anche essere legittimata da un eccesso di arbitrarietà e incertezza scientifica, da cui si sottraggono, invece, le discipline di ricerca nel campo naturalistico, forti delle loro formule e dei loro postulati dimostrabili e replicabili.

Ma può, questa ragione, costituire la debolezza circa la credibilità delle scienze umane? Personalmente ho sempre cercato di vedere la straordinaria possibilità di ricchezza, sia teorica che pratica, nel campo delle scienze umane, proprio in virtù dell’incertezza e della volatilità cangiante del suo oggetto di studio. Le numerosissime e straordinarie possibilità argomentative concesse al piano dialettico, poggiano comunque su presupposti solidi dal punto di vista storico-filosofico, ne sono la prova tutti i percorsi di esplorazione concettuale e consolidamento di pratiche operative, tecniche e metodologie scientifiche, che risultano estensioni dei paradigmi maturati nell’ambito delle riflessioni intorno agli oggetti dell’esistenza e dei motti interiori dell’uomo.

Il counseling, dunque, non è l’ennesima sottoramificazione di un procedimento parolaio e dispensatore di parafrasi di antica e risaputa saggezza, ma una tecnica di ascolto atta a rivalutare la prossimità dell’uomo col suo prossimo, riscoprendone il potenziale di crescita nella vicinanza empatica, nel contatto con l’altrui sentire. E questo processo non è una paccottiglia di buon senso amalgamato con improvvisazione, ma gestione sapiente della relazione, nella consapevolezza che dall’efficacia della stessa ne può dipendere la qualità dell’intervento. La dinamica è molto più complessa di quanto appare, e l’approfondimento della stessa richiede metodo, studio, ricerca, dedizione, preparazione alla scoperta di sé, in quanto se da una parte può essere vissuta con un edificante senso di pienezza e appagamento, dall’altra può innescare quell’increscioso sentire che produce fuga e ripiego da se e dalle circostanze.

Dunque, un buon counseling non basta, occorre un buon counselor, cioè colui che oltre ad avere padronanza con la cassetta degli arnesi della professione, prosegue il suo cammino esperienziale del divenire, pronto a lasciarsi sorprendere, ad abbandonarsi all’esperienza estatica e destabilizzante della scoperta, aperto alla meraviglia, disincantato e senza giudizio, a mente nuda, come un bambino, di modo da esser degno di ricevere il privilegio dell’aver rivelazione di ciò che si cela dietro l’apparenza, perché “se non diventerete come bambini non entrerete nel Regno dei Cieli” (Mt 18. 1-5), ci rivela Gesù Cristo.

Allora, tutto ciò che secondo un certo rigore positivistico è giudicato come metodo fallace da non onorare con nomenclatura di scienza, si avvalora proprio della sua incertezza, perché si autocertifica spazi di libero confronto, senza temere l’ignoto, senza censurare aprioristicamente ciò che non sembra essere degno di esplorazione. È importante sottolineare che ciò può avvenire senza cadere nelle trappole astruse di una scienza organistica che, per rifuggir dalla paura della retorica o della bocciatura accademica, finisce per diventare un guazzabuglio di riduzionismo materialista, dualistico e perciò inadatto allo studio dei fenomeni umani, che per essere in parte spiegati e interpretati necessitano di atteggiamenti contemplatori del non visibile, del non noto e dell’inesplorato, sfatando l’arrogante arbitrarietà secondo cui si divide il mondo in categorie antinomiche obsolete, quali Scientifico/Non scientifico, Possibile/Impossibile;  riflesso del’arretratezza subculturale di una scienza che fa politica e non ricerca, e che usa strumentalmente queste inadeguate strutture catalogatrici per fini spesso non etici, o nella non peggiore delle ipotesi  non utili alla conoscenza e alla verità.

Di tutt’altro avviso dovrebbe essere il counseling, il quale dovrebbe proporre percorsi di ricerca dentro cui le parole chiave della ricerca-azione, in campo umanistico, contemplano chiavi di lettura che osano giungere laddove si prospetta l’inaccessibile. Sposando rigore metodologico, solido impianto teorico e apertura di ipotesi di ricerca, il counseling potrebbe seriamente vivificare le prospettive di indagine di ogni fenomeno umano. L’antropos, come oggetto di studio e come diretto fruitore delle conoscenze intorno a lui stesso, ne uscirebbe rafforzato, come visione di se e come utilizzatore delle proprie risorse e possibilità. Le ricadute in termini di consapevolezza e sollecitudine esperienziali sarebbero davvero interessanti. Dunque, la prospettiva del counseling, dovrebbe includere valori quali: invenzione, casualità, creatività, azzardo, apertura al cambiamento, dinamismo, sperimentazione, ricerca, conflitto, confronto comparativo, sfida all’establishment accademico, errore, passione, antica saggezza del sapere pratico, improvvisazione, intuito, apertura all’imponderabile, meraviglia intorno al dato incontrollabile e sfuggente.

In sintesi, una rivoluzione dei paradigmi rigidi e deterministici rispetto a chi, studiando qualcosa, si impegna a farlo ricadere dentro i costrutti interpretativi che impongono limiti concettuali nel nome del controllo e della conservazione dei parametri ideologici e culturali che non facciano torto alla cornice storico-concettuale di riferimento.  In questo caso, invece, si promuove una reale disponibilità a concepire i fenomeni nella loro interezza, senza sottrarsi all’umana paura dell’incontrollabile. Questa, in fin dei conti, è la vera metodologia oggettiva della ricerca, perché ciò che si propone è uno sguardo neutro, pronto a far perire e svecchiare anacronistiche convinzioni, ad ammettere o addirittura a provocare e ricercare l’errore. Un modo per fare scienza che coincide anche con un modo per maturare le parti del Sé in un cammino più autentico, ovvero coll’impegno di condursi verso una vita che si smaschera coraggiosamente di false convinzioni circa la nostra natura. Un modo per fare scienza, che è anche un modo per essere liberi, questo, a mio discreto avviso, è il compito qualificante che può elevare il counseling alla sua più utile ed edificante funzione.

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