COUNSELING E PSICOLOGIA: figli e figliastri nella scienza umanistica

Inviato da Nuccio Salis

ponteQuando si vuole differenziare il counseling dal trattamento psicoterapeutico, spesso si adduce a quest’ultimo la prerogativa di entrare nella dimensione emozionale profonda, a dispetto del primo che invece, in una sorta di pudore reverenziale, precisa che non può compiere un’opera compenetrativa nel mondo esperienziale del cliente, che non può nemmeno proporre incasellamenti diagnostici e nemmeno indagare sul vissuto remoto alla ricerca di contorti legami causali del malessere sperimentato dal richiedente aiuto. Descritto e presentato così, il counseling sembra quasi un timido figlio minore della Grande Madre Psicologia, dalla quale sembra temere una pubblica punizione esemplare.
-Noi- diciamo spesso noi counselor –Non trattiamo le dinamiche del profondo-
Ciò apre molto spesso ad un arbitrario equivoco secondo il quale l’intervento di counseling sarebbe più facile da condurre, con meno responsabilità, quasi un dialogo fra amici, più confidenziale; insomma, nella percezione comune, un aiuto dal ridotto spessore professionale.

Uno psicologo di serie B, insomma, anzi un “quasi psicologo ma non proprio”, definito soprattutto per ciò che non è, quindi riconosciuto proprio in quanto informe. Se questo, da una parte, attira coloro che per pudore o per preconcetti diffidano della figura riconosciuta dello psicologo, e optano per il counselor, figura percepita come meno invasiva ma anche più manipolabile; d’altra parte chi ritiene di avere necessità di un sostegno qualificato si rivolge all’affidabilità riconosciuta e standardizzata della figura dello psicologo. Naturalmente, il counselor non può limitarsi a vivacchiare sulla errata percezione comune ed ingenua nei confronti del sostegno psicologico tradizionale, conservando di fatto anche su di esso una altrettanto immagine artefatta del suo ruolo professionale. Tale doppia sbiadita visione andrebbe a mio avviso a discapito di entrambe le professioni (counselor e psicologo), che su tale piano di azione non produrrebbero fra loro i necessari collegamenti e quell’arricchente e feconda collaborazione che potenzialmente potrebbero sviluppare, a vantaggio della ricerca, del sapere umanistico e soprattutto dei portatori di bisogni che si appellano o all’uno o all’altro.

Forse, la prima cosa da fare potrebbe essere quella di sanare innanzitutto l’equivoco del counseling come un trattamento superficiale, e cercare di chiarire semmai che l’approccio consiste nel verificare le reali risorse e potenzialità presenti nel qui ed ora, per farne strumento di ri-abilitazione alla piena vita. E ciò, almeno apparentemente, consiste in un trattamento che parte dalla cosiddetta superficie, ovvero da tutti quegli elementi visibili e concreti, nella vita di un individuo, che fanno parte del suo mondo contestuale e relazionale.
La ristrutturazione profonda dunque avviene, semmai tale passaggio è indiretto, ma non si può definire certamente superficiale, utilizzando cioè un’espressione proposta come sinonimo di stupido, materialista, insensibile o di poco valore. E il fatto che tale passaggio sia indiretto, non può certo farci sentire inferiori e remissivamente proni e deferenti di fronte all’autorevolezza accademica ribadita dalla psicologia, con la quale il counseling è decisamente imparentato.

Il percorso di counseling non è né migliore né inferiore a quello psicologico, è semplicemente diverso. Se si riuscisse ad affermare questo, con assertività e credibilità operativa, forse smetteranno anche le tanto inutili diatribe fra counseling e psicologia, due modelli già legati da una naturale contiguità, e che solo disquisizioni politiche possono continuare a vedere separati.
Sta anche al counselor affermare e descrivere la propria figura senza dover passare per forza per la negazione di qualcosa, meno che mai della disciplina di cui ne rappresenta una sottoramificazione. Eppure spesso, come se dovessimo discolparci da un implicito senso di abusività o subordinazione, ci ritroviamo a descrivere la nostra professione ed il nostro approccio per antitesi alla psicologia, rimarcandone le più rilevanti differenze ed evidenziando in misura maggiore cosa NON siamo , cosa NON facciamo, in che modo NON possiamo intervenire. Per questa ragione, dopo aver spiegato a grandi linee le ragioni ed il profilo della nostra professione, ci sentiamo quasi sempre ribattere: “ma quindi cosa fai?”

E forse non saranno nemmeno le ultime e tanto attese normative erogate dall’attuale Parlamento, a risolvere i dubbi e le complesse questioni in gioco. Il salto di qualità nel pieno riconoscimento non solo politico, ma poi anche sociale, spetta esclusivamente a noi counselor stessi, assumendo piena consapevolezza circa la specificità del proprio ruolo, coi suoi confini, la sua deontologia, il suo paradigma e la sua ragion d’essere sufficientemente bastevole a se stessa. E ciò, naturalmente, è una prova con cui ci si dovrà cimentare soprattutto nei contesti operativi, qualificando il proprio ruolo ed il senso del proprio agire, nell’impegno di produrre risultati tangibili e verificabili.
Il riscatto scientifico del counseling sembra ben lontano, ovviamente qui in Italia, ed è un percorso che potremo guadagnare coscientizzando l’importanza di tale figura, dimostrandone nel contempo l’efficacia e il valore, in termini rispettivamente pragmatici ed etici.
Sembra questa l’unica strada per smettere di sentirci i figli di un dio minore e per non sentire più l’obbligo di dimostrare ciò che non siamo, esplicitando piuttosto il senso di una professione qualificata, alla legittima ricerca di una propria identità epistemologica, di una propria collocazione specifica e finalmente ripagata nell’ambito delle forme dell’aiuto alla persona.

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