AIUTAMI, NON HO BISOGNO DI TE! Favorire la compliance col cliente nel colloquio di aiuto

Inviato da Nuccio Salis

help“I can’t help you if you won’t help yourself” declama il ritornello di un raffinatissimo e delicato brano meravigliosamente cantato dalla scomparsa Amy Winehouse.

E già, non posso aiutarti se non ti aiuti. La ricerca della compliance col cliente è uno dei compiti più ardui che forse si trova ad affrontare il counselor. Ai corsi formativi sul counseling, i conduttori citavano con ricorrenza la regola del 50/50. Essa è peraltro valida ed attendibilmente applicabile diffusamente in tutti i rapporti umani. Si tratta di un’assunzione condivisa di responsabilità, stabilita contrattualmente, che impegna entrambe le parti a convergere su obiettivi comuni e negoziati laddove si rende necessaria la concertazione. Si può contare in questo modo sulla reciprocità, elemento che se espletato fino in fondo garantisce una collaborazione costruttiva che può rivelarsi prima di tutto appagante in relazione al clima sociale sviluppato e in seguito anche costruttivo sotto l’aspetto pragmatico. Non sempre, però, chi sta affondando afferra la corda che gli viene lanciata.

Tendere la mano e non trovare quella del richiedente aiuto è una incongruenza da cui mi sento ferito, come se fossi minacciato nel mio ruolo, svalutato per la mia capacità di offrire aiuto, ed arrabbiato con l’interlocutore perché non sa, non riesce oppure non vuole apprezzare il valore del sostegno. Se è giusto sentire questo e averne consapevolezza, altrettanto corretto è rispettare le resistenze ed i comportamenti di arroccamento e di ipervigilanza da parte del ricevente aiuto… e saper aspettare. In prima battuta, bisogna tenere a freno il meccanismo del Genitore affettivo solutore, che con la sua carica di ansia e di iperprotettività soddisfa la sua fame di controllo, dietro l’egida romantica del sentimento. Tenere a bada questo aspetto funzionale dello stato dell’Ego genitoriale è un decisivo passo iniziale per poter accettare incondizionatamente l’altro da me, ed accoglierlo anche nella sua difficoltà di autorivelarsi. Come counselor non ho nessuna ragione di indagare sull’origine o sulle forme delle motivazioni arcaiche che spingono un cliente “resistente” a non permettersi di schiudersi al confronto con se stesso e lasciarsi andare. Ciò che invece ritengo di poter fare è di creare un rapporto all’interno di un clima dove ogni elemento di comunicazione, intenzionale o no, può essere un valido spunto per avviare il processo dello scambio, allentando la resistenza. Insomma, nel pieno rispetto della prima regola della comunicazione secondo i principi della scuola statunitense di Palo Alto, che ci insegna in primo luogo che “è impossibile non comunicare”. Ed allora, il silenzio, o un sussurro, uno sguardo evitante, una postura di difesa; possono essere tutti elementi da rispecchiare col massimo della descrittività, curando nel rimando tutti gli aspetti della comunicazione cinestetica e paraverbale. Naturalmente tutto questo processo non si disgiunge dalle parole: il messaggio Io, utilizzato con sapiente ricorrenza, può essere un modello efficace di come ci si possa dare il permesso di osservare, sentire, regolare nel qui e ora, con connessa ricerca del senso.

Al di la degli aspetti tecnici, credo che sia davvero decisivo far passare proprio fra gli atomi dell’aria, durante il colloquio, come sia possibile esplorarsi, e che una costante mancanza di impegno verso una rielaborazione esperienziale di sé interrompe il flusso dello scambio fra le parti. Coinvolgere attivamente chi non è abituato ad assumere decisioni e chi si è strutturato con la forma mentis della delega, del disimpegno, del “pensaci tu”, può delineare un percorso frustrante, forse addirittura inconcludente. Certo, se tali resistenze appartengono ad una struttura di personalità cronicizzata su questi aspetti, lo strumento dell’invio è indispensabile, qualora l’alternativa fosse l’accanimento terapeutico.

Perché alcuni individui oppongono resistenza al manifestarsi con trasparenza? Le ragioni sono inquadrabili in una moltitudine di motivi. Vergogna, abitudine, sensazione di vulnerabilità o di inadeguatezza. Può capitare spesso di fronte ad interlocutori inviati, quali per esempio studenti demotivati con forme di disadattamento vario, per i quali si è richiesto un intervento di counseling indiretto.

Ciò che in estrema sintesi desideravo dire è che una cultura dell’aiuto debba pur svilupparsi, certo, e al tempo stesso ritengo che lo debba fare in modo maturo; cioè, a mio insignificante modo di vedere, tale cultura avrebbe pienamente senso se riguardasse non soltanto la capacità di chiedere aiuto, ma includesse anche la capacità di fare la propria parte nel processo dell’aiuto.

Aderire, insomma, alla regola del 50/50, vera struttura normativa in grado di sollecitare un alleanza fra le parti coinvolte nel processo.

Penso, in conclusione, ad una cultura che immette dentro di noi, concettualmente e con visibili declinazioni comportamentali, un detto antico cinese che recita “Il cielo ti da il riso ma non te lo cucina”, che sembra proprio utile come possibile motto della relazione di counseling, che ha anche lo scopo di prevenire o destrutturare atteggiamenti di dipendenza, di deresponsabilizzazione e di vittimismo.

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