Famiglia, immagine ed altre prigioni (quinta parte)


famiglia numerosa“La mia felicità sono io non tu.

Non soltanto perché tu puoi essere fugace,

ma anche perché tu vuoi che io sia ciò che non sono.

Io non posso esser felice quando cambio

Soltanto per soddisfare il tuo egoismo.

E non posso sentirmi felice quando mi critichi perché

non penso i tuoi pensieri

E non vedo come vedi tu.

Mi chiami ribelle.

Eppure ogni volta che ho respinto le tue convinzioni

Tu ti sei ribellato alle mie

Io non cerco di plasmare la tua mente.

So che ti sforzi di essere te stesso.

E non posso permettere che tu mi dica cosa devo essere...

Perché sono impegnata a essere me.”

(Buscaglia, 1990)

 

 

All’inizio di questo mio percorso di counseling, tutto ciò che avevo rimosso, quello che credevo in qualche modo rimarginato grazie al passare del tempo, si è riaperto e ha cominciato a sanguinare: la ferita della “mancanza d’amore”, quella mancanza che avevo percepito, reale o presunta che fosse, c’era ancora, non si era richiusa e credo che in qualche modo non si rimarginerà mai completamente! Adesso però ho la percezione molto chiara che potrò impedirle di fare così male e che potrò usare quel male per affrontare al meglio la mia vita di donna adulta.

 

Prima di incontrare il counseling, prima di incontrare chi mi aiutasse ad aprire occhi, orecchie e cuore e ad ascoltarmi, facevo sempre quello che gli altri volevano da me! Dovrei dire che in origine facevo sempre quello che mia madre voleva da me, prima che la cosa prendesse una piega più generale... poi cominciavano le resistenze ed entravo in uno stato di confusione che durava giorni, a volte mesi... forse, a ben pensarci, è durato anni... l’energia calava, tentavo inutilmente di fare cose, di ripartire, di andare avanti ma, inevitabilmente, nasceva il senso di colpa e finivo per rinunciare al mio volere e per fare quello che lei o gli altri si aspettavano da me, oppure quello che mi suggeriva il mio senso di colpa nei loro confronti... e comunque, nonostante le mie rinunce e i miei sforzi, nonostante i miei tentativi di piacerle e di essere accolta, ai suoi occhi sbagliavo, sbagliavo sempre, sbagliavo lo stesso. Gran parte della mia personalità era diventata adulta e matura ma una parte di me non era cresciuta insieme al resto, pronta a riemergere ogni volta al richiamo della mamma, al richiamo di quel genitore introiettato, più ancora che reale, con cui il confronto non era mai alla pari... e così mentre alcune idee erano cambiate e si erano evolute nella mia mente, certi altri episodi avvenuti nell’infanzia prima e nell’adolescenza poi, continuavano ad essere vivi e non integrati, continuavano a produrre dolore e rabbia mai sfogata veramente!

 

E’ stato proprio di fronte al raggiungimento di questa consapevolezza che ho iniziato a pensare a quanto il potere inconscio esercitato dal legame famigliare sia forte, spesso molto più forte del desiderio di cambiare le cose, ed è stato proprio a questo punto che ho sentito dentro la necessità di perdonarmi e di perdonare per poter prendere in mano la mia vita e farne davvero qualcosa.

“Il perdono può essere definito come un sentimento complesso e adattivo, accompagnato dal punto di vista emotivo da sentimenti di compassione e amore, e dal punto di vista cognitivo dalla capacità di vedere gli eventi da un’altra prospettiva e di accettare quanto è successo” (Giusti, Corte, 2009).

E siccome il vero perdono presuppone la vera comprensione, bisogna essere capaci di vedere chiaramente l’intero quadro, non indietreggiare davanti a nessuna sua parte, non negarne nessuna e accettarlo nella sua interezza: in un certo senso ciò significa che dobbiamo diventare esperti di quel che dobbiamo perdonare (noi stessi in primis e poi, per quanto possibile, l’altro da noi), scorgerne tutti gli aspetti e non limitarci a considerare un unico punto di vista. Solo così chi viene perdonato si sente nuovamente degno di fiducia e gode della possibilità di tornare a reintegrarsi e a ripartire, contrariamente a quanto accade a chi viene continuamente giudicato, anche da se stesso, e che in questo modo viene fermato nel suo errore, senza nessuna possibilità di riscatto!

 

Durante il mio percorso di formazione al counseling ho potuto sperimentare che le persone che raggiungono un profondo grado di consapevolezza riguardo alla tortuosità del rapporto con i propri genitori non cedono più alla tentazione di vedere in questi ultimi l’unica causa delle proprie difficoltà: in ogni rapporto c’è complicità, corresponsabilità, partecipazione... chi accetta questo principio si sente davvero stimolato alla responsabilità individuale nel “qui ed ora”. I genitori sono i nostri primi insegnanti ma non sempre sono i migliori... i figli crescono con la convinzione che i genitori debbano essere perfetti e poi restano delusi quando scoprono che quei poveri esseri umani non lo sono. Forse diventare adulti e crescere significa proprio trovarsi di fronte a queste due persone e riuscire a vederle esseri umani come noi, con i loro pregiudizi, le idee sbagliate, le tenerezze e le gioie, le sofferenze e le lacrime, da condividere, da comprendere, da accogliere, da ascoltare, se si vuole essere compresi, accolti, ascoltati!

 

Ho imparato, con immane fatica, che riuscire a dare una risposta diretta, onesta, chiara, cosa che in precedenza non ero mai riuscita a fare, è quasi come utilizzare una formula magica perché ti permette di essere d’accordo solo quando lo sei veramente e non perché hai paura di non essere amato a causa delle tue idee e ti permette anche di credere che in famiglia si possa sentire la libertà di poter fare commenti su qualsiasi cosa, perché non è così rischioso e si sopravvive e perché la famiglia ti ascolterà, ti accoglierà e magari imparerà da quello che stai dicendo o provando o sentendo. Non appena comprendiamo che il punto cruciale sta nell’auto-abbandono e nella separazione avvenuta all’interno di noi stessi e non nell’abbandono dell’altro, cominciamo a modificare il nostro modo di vedere e di agire... guardiamo più verso l’interno che verso l’esterno! E’ sufficiente rimanere in contatto con le proprie sensazioni e con i propri pensieri: consapevoli, ricettivi, attenti senza essere sempre e solo autocritici, perché niente altro se non la sensibilità riguardo a quello che ci sta succedendo qui ed ora, consente agli antichi modelli di energia di sciogliersi dall’interno... Il nostro organismo possiede un immenso potenziale di auto guarigione che può svilupparsi solo attraverso un’attenzione e un ascolto senza pregiudizio, nei confronti dei processi che autonomamente avvengono dentro di noi, basta avere solo un po’ di vera “fiducia” in quei processi. Anche il riappacificarsi con il proprio corpo, con quello che è e che siamo, con l’immagine fisica che abbiamo di noi stessi, è strettamente legato alla capacità di riconoscersi come unici, di dare valore all’autonomia personale, di placare i conflitti legati allo sguardo dei nostri genitori interni, quei genitori per i quali non andiamo mai abbastanza bene.

 

Appena ho cominciato gli incontri dedicati al lavoro individuale, ho compreso sulla mia pelle che la ferita di chi non si è sentito amato è in realtà senza parole: sono riuscita a raccontare tante cose durante gli incontri del master e anche nel corso dei lavori di gruppo, di come mi sono sentita incompresa, emotivamente abbandonata, non apprezzata, cambiata... ho parlato e parlato ma fino a che tutto rimane nella testa e non diventa consapevolezza fisica, esperita, vissuta e accolta, è inutile, e anche le parole che raccontano le successive esperienze di mancanza d’amore, quelle da adulta, sembrano sradicate e prive di senso se non le si lascia scavare.

 

Come ci spiega Edoardo Giusti, “nel superamento del circolo vizioso di auto-confermazione del proprio concetto di sé e nella ridefinizione di un nuovo concetto, svolge un ruolo importante l’attività di self-disclosure, cioè del processo tramite il quale gli individui rivelano pensieri, sentimenti ed esperienze personali ad un altro” (Giusti, 2002). Riuscire a rivivere l’antico dolore che continua a rinnovarsi sempre, poterlo fare sotto lo sguardo partecipe di un'altra persona alla quale si possa rischiare di mostrarsi, fa andare oltre la sofferenza e fa scoprire la propria forza... la narrazione di sé in una relazione in cui si possa condividere ciò che si prova e la propria fragilità, senza paura del giudizio ma sicuri di essere empaticamente accolti ed ascoltati, produce cambiamento e crescita: ora so che posso dare a me stessa ciò che la famiglia in qualche modo mi ha “rifiutato”: attenzione emotiva, calore, sicurezza, stima, fiducia, ascolto, comprensione. Il counselor infatti propone modalità diverse da quelle che il cliente ha appreso nel suo ambiente originario e questo fa nascere la fiducia e riattiva le energie nella direzione dell’autorealizzazione e nella ricerca del benessere, stimola visioni alternative di tipo differente, unisce diversi punti di vista, mette in atto un processo di riflessione ed amplifica le potenzialità.

 

Ogni persona fa nella sua vita del proprio meglio, anche quando questo meglio è evidentemente disfunzionale: credere in questo principio consente, guardando se stessi e ogni altro essere umano, di abbandonare le posizioni moralistiche e di restituire responsabilità e potere all’individuo. In funzione di questo la relazione d’aiuto che si instaura tra un counselor e il proprio cliente serve ad accrescere l’auto-esplorazione e l’auto-comprensione, permettendo l’espressione del disagio e del dolore: il sostegno non consiste nel proporre soluzioni o dare consigli, quanto piuttosto nell’accompagnare nell’individuazione e nella rimozione degli ostacoli, rendendo possibile il dispiegarsi delle energie/potenzialità che la persona possiede e ricreando condizioni favorevoli alla crescita e al raggiungimento del benessere psico-fisico. Conquistare la consapevolezza, a seguito dell’esperienza fatta tramite l’adattamento creativo consapevole, che si mette in atto durante un percorso di counseling, permette di sviluppare benessere e salute, capacità di coping, autodeterminazione e affermazione di sé. Il Counselor può accompagnare il cliente in un percorso di rivalutazione di sé e del proprio valore, partendo dal principio che le risorse sono già all'interno dell'individuo: spostando il focus dal problema alla persona, dalla patogenesi alla salutogenesi, dall’analisi del malessere alla ricerca del benessere, è possibile che il cliente trovi un nuovo orientamento e una nuova direzione, modificando l'opinione che ha di sé ed anche l’atteggiamento nei propri confronti (maggior cura della propria persona, capacità di assumersi dei rischi, di porsi obiettivi, di agire con responsabilità individuale...).

 

Non è stato facile decidere di iniziare un percorso individuale, è stata una lotta con me stessa durata tanto tempo e che è arrivata al suo epilogo soltanto durante questo terzo anno di formazione. Qualcosa mi fermava, forse la paura di svelarmi, forse la paura di arrivare finalmente a far luce su di me togliendomi ogni possibilità di continuare a nascondermi dietro il mio dolore ed il mio silenzio... Ma arriva un momento nella vita in cui certe scelte vanno affrontate, arriva un momento aspettato da sempre, che non si vuole e non si può rischiare di buttare via solo per paura di affrontare dei fantasmi, solo per paura di diventare veramente quello che si è! E quel momento per me è arrivato quando ho iniziato finalmente a sentirmi amata da un’altra persona proprio così come sono, quando finalmente l’ho sentito sulla pelle come una possibilità reale, quando ho compreso che non c’è niente da fare, niente da cambiare, c’è solo da ascoltare, da accogliere, da comprendere, da osservare, da sentire... quando ho capito che dipende solo da me amarmi così come sono... è realmente il paradosso del cambiamento, per il quale le cose iniziano a cambiare solo nel momento in cui si accetta senza riserve di essere così come si è! Il mio modo di pormi in relazione è sempre stato guidato dalla paura, sotto sotto sono sempre stata terrorizzata dall’idea di aprirmi a qualcuno e di esserne respinta ma anche dall’idea di essere finalmente vista così come sono e dall’idea di amare realmente: le mie relazioni sono sempre state fatte di fughe, mancanza di intimità, conflitti o tentativi di cambiare l’altra persona! La capacità di costruire e vivere relazioni intime ha molto a che fare con l’immagine che si ha di se stessi e con il valore che ci si attribuisce e solo quando mi sono concessa di aprirmi totalmente, solo quando mi è stato chiesto con amore, ho compreso quanto io sia stata isolata e quanto mi terrorizzasse l’idea di lasciarmi veramente avvicinare: aprirsi fa paura perché una delle paure più grandi è quella di essere feriti e se rimaniamo nel nostro mondo chiuso, protetto ed isolato, possiamo almeno provare a non farci ferire ancora... Ma questo comportamento non funziona più, soprattutto a questo punto del mio viaggio. Ho imparato che intimità non significa chiusura, in sé o con l’altro, ma in un certo senso ne è l’opposto esatto: sembra un paradosso ma la vera intimità è quella che crea l’unità e l’unità è la massima apertura, perché è la totale accoglienza dell’altro, nel rispetto della sua individualità e nel dono totale di sé... è un valore dell’essere e non del fare, del dare e non del possedere!

 

Mentre sto scrivendo sento dei passi lungo il corridoio, qualcuno bussa alla porta del mio ufficio e domando: “Chi è?”. Domanda classica, banale nella sua semplicità, e la risposta che ricevo è un ancor più semplice “Io”... questo mi fa riflettere... quando diciamo “io”, “tu” oppure un nome proprio “Ilaria”, pensiamo soprattutto ad un corpo, ad un volto con cui identifichiamo qualcuno, quell’io o quel tu, quando pensiamo ad un corpo pensiamo inevitabilmente al corpo di qualcuno! Ma cosa diciamo di noi stessi per poter essere identificati, riconosciuti al di là dell’aspetto fisico? Io sono sempre un corpo ma non sono sempre lo stesso corpo, io sono sempre una persona ma non sono sempre la stessa persona, io sono sempre me stessa ma non sono sempre la stessa, provengo da un passato che mi ha segnato e sono proiettata in un futuro che sto costruendo! Tutto questo, nei miei pensieri, è inevitabilmente legato a quella ambivalenza che i filosofi definiscono “la dialettica tra essere corpo ed avere corpo”: siamo un corpo e abbiamo un corpo ma non ci riconosciamo solo nel nostro essere corpo ed il nostro avere un corpo non è come possedere un oggetto...

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