LA FASE DEL “DOPO” NEL SUPERAMENTO DEI PROBLEMI. Contenere le ricadute e guadagnare nuovi equilibri

Inviato da Nuccio Salis

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Quando si è usciti davvero in modo completo da un evento legato alla sofferenza? È possibile affermare a se stessi con un discreto margine di sicurezza, di aver superato definitivamente una fase difficile e dolorosa? Si può realmente asserire di aver sorpassato e risolto un trauma?

Ciascuno in genere risponde a se stesso, facendo ricorso alla propria percezione di benessere e di equilibrio riconquistato. È lecito tuttavia domandarsi se il problema elaborato sia realmente e serenamente gestito con competenza dall’individuo che ne è stato protagonista, oppure, se egli stesso costruisca una solida convinzione che ne suggestioni il vissuto e ne deformi la realtà.

Non esiste infatti un comune accordo, nell’ambito della professione di aiuto, fra differenti specialisti alla cura umana della persona. Vi sono infatti coloro i quali sostengono che la fuoriuscita o la risoluzione di uno spiacevole impatto esistenziale sulla psiche, non sia possibile scioglierlo in maniera totale, e che una certa residualità sia sempre pronta a ricrescere e manifestarsi di nuovo.

 

Accolte queste considerazioni, da cui peraltro si evince un importante monito a salvaguardia della salute e della tutela della persona, non ci si può esentare dall’impegno di seguire l’individuo ri-abilitato alla sua esistenza, affinchè conservi e mantenga il suo nuovo equilibrio, riconoscendo nuovi punti di fragilità e di forza emersi nel corso della sua esperienza determinata dall’elemento della perdita.

Servirebbero cioè attendibili ed efficaci strumenti di follow-up, in grado di misurare la qualità di vita nella continuità del percorso dopo aver affrontato un lutto o un qualsiasi evento increscioso che comunque ha messo significativamente in discussione il proprio orizzonte di senso.

Per la verità, sono stati ideati dei test per verificare e rendere noto di come procede l’individuo nella conquista di una nuova dimensione esistenziale, e quanto e se si senta in linea con un rinnovato indirizzo di significati da attribuire alla sua vita. Il problema risiede nel non poter estrapolare dati uniformabili e staticamente affidabili per una sufficiente generalizzazione, dal momento che persone, contesti, tipologie di intervento e di trattamento, costituiscono variabili decisamente complesse, articolate e sostanzialmente incontrollabili.

Quindi, una volta effettuato il “log-out” dal problema, come provvedere all’integrità e alla relativa stabilità di una nuova piattaforma esistenziale?

Il counselor dovrebbe offrire sempre una visione realistica ed onesta al suo cliente, e considerare i punti nevralgici, così come anche le risorse e le risposte resilienti già attivate dallo stesso. In questa fase è importante l’osservazione longitudinale del percorso che il soggetto compie dopo aver dichiarato a se stesso di sentirsi pronto per concepirsi dentro una cornice di autonomia, e dopo aver colto in se stesso la capacità di proteggersi e di attivarsi dentro un nuovo ordine di idee e di istanze progettuali.

Dentro questo nuovo spazio, il soggetto si rinquadra nella sua quotidianità, e diventa possibile carpirne le modalità e le strategie con cui affronta il nuovo percorso. Questo, oltre a soddisfare motivate curiosità scientifiche, può dare apertura al reperimento di princìpi, modelli e strumenti per un’azione di aiuto realmente efficace, in grado cioè di occuparsi della persona anche nell’ambito della prevenzione terziaria, ovvero quel livello di intervento in cui si opera dopo che il problema si è già manifestato, cercando di gestire la complessità di tutti quegli elementi che vengono addotti come responsabili dell’origine di una specificata area problematica.

In pratica, mai si dovrebbe dare per scontato che una persona, una volta raggiunto un apparente e relativo stato di benessere, dopo aver attraversato il guado di un profondo supplizio, sia pronta per fronteggiare nuovi avvenimenti e sufficientemente forte per recuperare e ristabilire ogni sua funzione.

Insieme al proprio necessario credo filosofico, il counselor sa bene che per garantire la promozione del benessere è fondamentale non trascurare nessuna fase, e quindi nemmeno il riassestamento dovrebbe prevedere che la persona venga lasciata sola. È facile cadere nell’inganno percettivo secondo cui si ritiene concluso il proprio compito, e così troppo precipitosamente la persona può essere considerata all’interno di una nuova solidità individuale in cui si prospettano soltanto la rinascita e l’autonomia.

Forse, un buon counselor, che pur investe necessariamente sul potere di rinascita e di riscatto della persona, essendovi incline per orientamento personale e scientifico, anche a causa della sua formazione, non potrà comunque assolversi dal compito di seguire i successivi passi del cliente, in quanto rappresentazioni preziose e delicate di una nuova rotta esistenziale e decisionale da parte di quest’ultimo. Il counselor sa che cosa può fare un dolore, e forse è molto più che probabile che questa sua conoscenza nasca dalla sua stessa vita, dagli insegnamenti ricavati da tutte quelle situazioni di impasse e di stallo che si sono conformati e succeduti prima di tutto nella sua personale biografia, obbligandolo al confronto con se stesso.

I tempi e le modalità dei percorsi di ciascuno sono certamente soggettivi, eterocronici, dotati di speciale e irripetibile unicità, ed appurato questo non si può in ogni caso sottovalutare la capacità di un trauma di compiere molto spesso un’opera devastante dentro l’individuo, da cui egli medesimo riceve la consegna di riscrivere la propria storia, nella prospettiva di una personale rivincita.

Ci si può domandare quali domini del Sé vanno ad essere interessati a questo galvanizzante processo di rivisitazione di se stessi. Si possono individuare almeno 3 componenti, legati al rapporto con se stessi, con gli altri e con i propri costrutti di significazione.

Una fase di “post-dolore”, ci sollecita anzitutto a riorganizzare l’idea che abbiamo di noi stessi. Diverse persone, dopo un increscioso e scioccante accadimento nella loro vita, scoprono una insospettabile forza che fino ad allora avevano ignorato. Non sono pochi coloro, per esempio, che raggiungono una fase avanzata e matura del fronteggiamento ed elaborazione del dolore, nota come ‘trascendenza’, che li vede impegnati nel promuovere istanze ispirate alla causa precipitante del loro dolore. Pensiamo ad esempio a quelle persone che fondano associazioni che promuovono la divulgazione di un tema o difendono interessi di categorie di cui non si sarebbero occupati in assenza dell’evento che ha modificato i connotati e i riferimenti di tutto il loro credo esistenziale. E proprio questo aspetto si ricongiunge inevitabilmente a un altro punto, che riguarda la ricognizione del proprio sistema di credenze e convinzioni. Si assiste cioè ad un travaglio interno che consiste in un processo rivoluzionario di ripristino e di ribaltamento delle proprie ipotesi e rappresentazioni di realtà. Si assumono nuove prospettive e nuovi valori. Si arricchisce la propria visione di mondo, svecchiando obsolete modalità e atteggiamenti non più funzionali, e re-impostando nuovi elementi di valutazione in merito al proprio approccio nei confronti della vita. Altro aspetto assai significativo, e che costituisce pressoché una costante nel superamento di un’esperienza toccante, consiste nel restituire o sviluppare una considerazione positiva e valorizzante ai rapporti umani. Si ricercano cioè legami perduti o si cerca di rinsaldare quelli già noti, denotando loro una maggiore valenza, acquisendo l’importanza come nuclei fondamentali della propria mappa di resilienza e di supporto. Molto spesso, per imparare a reagire e trovarne la forza, si deve poter contare sull’appoggio incondizionato di qualcuno di nostra fiducia, che riscuote il nostro amore e la nostra stima, e possibilmente contraccambi tutto questo.

D’altra parte, l’idea di sé come capaci di far fronte ai propri processi emozionali, contando su una sana e concreta autoefficacia nell’area dell’intelligenza emotiva costituisce, insieme alla predisposizione alla cura per una buona tenuta dei legami interpersonali, l’espressione cardine per una percezione di sé improntata al benessere psicosociale. Da queste condizioni, se sapientemente mescolate come buoni ingredienti, si origina e si avvalora la fonte vitale che conduce ad una vita soddisfacente, dove l’autostima e la fiducia verso gli altri divengono le componenti dominanti e integrali.

Utilizzando il linguaggio analitico-transazionale, si potrebbe dire che il soggetto suggella la posizione esistenziale ‘Io sono OK, Tu sei Ok’; unico quadrante in grado di modellare e preservare un atteggiamento propositivo, costruttivo e vincente, foriero di vita autentica e di genuinità. Sembrerebbe questa, d’altronde, l’unica possibilità per esperire una vita salva da certi ingannevoli meccanismi relazionali patologici e ripetitivi, e quindi per prevenire le ricadute, per non far schiudere le uova con dentro i demoni sepolti, e quindi infine per sottrarsi alle subdole trappole dei giochi sociali, secondo un’accezione di disfunzionalità.

Più il counselor saprà far custodire queste preziose coordinate di ri-modellamento di sé e della propria vita, e più il cliente potrà realmente risorgere come Fenice dalla cenere, o come Nostro Signore dopo aver subito lo sfregio del martirio e della crocifissione.

La rinascita attende chiunque si ponga all’interno di questa prospettiva, e compito dello specialista della relazione è d’aiuto e favorire la naturalezza di tale percorso, rispettandone le tempistiche, i modi e i contenuti dei significati culturali che caratterizzano ciascuna individualità.

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