Sperimentazione del ruolo del counselor


gruppo_esperienziale

IL DISAGIO ALL’ INTERNO DELLE STRUTTURE ISTITUZIONALIZZANTI: SPERIMENTAZIONE DEL RUOLO DEL COUNSELOR.

INTRODUZIONE.

Questo elaborato costituisce una indagine che si ricollega a due precedenti studi sulla applicazione delle metodiche di Counseling nelle strutture istituzionalizzanti e ne tenta di ampliare alcuni limiti in quanto le accresciute conoscenze tecniche e l’esperienza acquisita hanno consentito una prima puntualizzazione sul problema, in un senso non facile da specificare al momento, ma che si potrà desumere dai contenuti espressi. Questo studio rappresenta pertanto la sintesi (sia a livello esperienziale che di rielaborazione personale) conclusiva della frequentazione del triennio della Scuola di Counseling ad indirizzo di Scienze Sociali “ACCADEMIA SOCRATICA” e nasce anche dalla esigenza critica di sperimentare le capacità personali dell’Autrice. Nella realtà sociale del Tigullio la conoscenza del Counseling risulta, come dato emergente dal presente studio, essere ancora molto scarsa, pertanto, la non conoscenza e, a volte, la misconoscenza della Disciplina nonché delle sue applicazioni, hanno reso estremamente complessa e non definita negli obiettivi programmati l’indagine presentata in questo lavoro. Sono essenzialmente le difficoltà incontrate, le resistenze del “sistema” istituzionalizzante i principali parametri non previsti e che hanno costituito un banco di prova molto significativo per l’Autrice, proprio perché difficile, complicato, a tratti potenzialmente demotivante per alcune condizioni di ostracismo. Inoltre l’ascoltare e l’avere la possibilità di analizzare le modalità di comunicazione di un interlocutore potenzialmente in atteggiamento di chiusura e di difesa, ha consentito di “mettere alla prova” le motivazioni e le aspettative dell’Autrice nello sperimentare concretamente in contesto reale situazioni di Colloquio, favorendo una autoanalisi che, probabilmente, alla fine di un percorso di studi così innovativo, è auspicabile che consegua del tutto naturalmente.

 

PRESENTAZIONE DELL’ELABORATO.

Durante l’A.A. 2006/2007 ho prodotto, in collaborazione con una compagna di corso che successivamente ha abbandonato gli studi, un primo scritto che analizzava la sindrome da istituzionalizzazione, nell’A.A. 2007/2008 ho prodotto uno scritto che presentava l’introduzione sperimentale del Counseling di Gruppo in una Struttura per la terza età, presso la quale lavoravo in qualità di Operatore Socio Sanitario. In questo terzo ed ultimo A.A. 2008/2009, come sintesi ed ampliamento delle precedenti indagini, presenterò i risultati di una nuova sperimentazione in ambito di Stage presso una Struttura Geriatrica, relativa all’introduzione della figura professionale del Counselor nel relativo contesto ed i tentativi di introdurre una sperimentazione basata sullo svolgimento di incontri di Counseling di Gruppo in due diversi Istituti di Scuola Primaria di Secondo Grado, rivolta a ragazzi di età compresa tra 11 e 14 anni, tentativi purtroppo rivelatisi infruttuosi. Tenterò di analizzare le modalità di comunicazione con le diverse Strutture, viste come interlocutori, ma anche le modalità di comunicazione e relazione tra chi risulta inserito nei diversi sistemi istituzionalizzanti ed il Counselor tirocinante. Amplia l’elaborato l’esperienza maturata in ambito di volontariato presso una sede dell’Associazione “Tribunale dei diritti del malato”, in cui l’Autrice ha potuto mettere in atto le modalità di ascolto attivo e non giudicante, anche se al di fuori del contesto Stage in Counseling. Infine completa questo scritto una rielaborazione a carattere personale dell’esperienza costituita dalla frequentazione dei tre anni di corso.


LA SPERIMENTAZIONE IN STRUTTURA GERIATRICA.

Questa sperimentazione è nata dalla mia necessità di riproporre l’inserimento del Counseling di gruppo in struttura per la terza età quale metodologia favorente la comunicazione e la capacità di relazione tra soggetti istituzionalizzati, dopo la chiusura forzosa ed improvvisa della struttura in cui lo scorso anno avevo iniziato e proseguito per un totale di sette incontri la precedente sperimentazione. Da gennaio 2009 è pertanto iniziato lo stage presso la struttura XXXXXX, proseguita sino al mese di maggio 2009 per un totale di 33 ore. Sin dall’inizio i Pazienti istituzionalizzati hanno mostrato un atteggiamento ambivalente nei miei confronti: da un lato curiosità e contentezza di poter avere l’occasione di raccontare qualche cosa di sé e della propria vita, dall’altro timore nel partecipare (o, in alcuni casi, nell’ipotesi di poter partecipare) ad incontri di gruppo, soprattutto giustificandolo con argomentazioni quali: ”Ma io non so cosa dire”, “Io non ho nulla da dire”. Le premesse sono risultate pertanto aderenti a quelle già sperimentate nell’indagine svolta precedentemente nell’anno 2006/2007. Alcuni hanno interagito da subito con apertura e collaborazione, manifestando contentezza ad ogni incontro, altri sono rimasti del tutto indifferenti e non hanno mai interagito con me, altri ancora, la maggior parte, ha tendenzialmente ripetuto ad ogni incontro gli stessi racconti, in genere dolorosi, della propria esistenza, edulcorando contemporaneamente la vita in comunità che conducevano adesso, forse nel tentativo di rendere più sopportabile una situazione di oggettive limitazioni esistenziali. La comunicazione con questi soggetti avviene principalmente a livello emotivo, in quanto molti di essi non sono in grado di mantenere ricordi orientati e congruenti tra un incontro ed il successivo, parimenti tendono ad agitarsi ed a chiudersi se sollecitati a compiere ideazioni razionali. Pertanto ho cercato di comunicare con loro utilizzando soprattutto il canale paraverbale, tentando di favorire un contesto improntato ad una atmosfera di serenità e di calma. Come ho avuto modo di apprendere durante il corso di Psicopatologia, la depressione è uno dei disturbi psichiatrici più diffusi nel soggetto anziano. Per i soggetti ospedalizzati o istituzionalizzati la depressione è spesso di tipo reattivo ma, come ho avuto modo di osservare personalmente sia in ambito di lavoro presso la Struttura nella quale fu effettuata la sperimentazione nel periodo 2006/2007 precedentemente, che nella Struttura di stage finale successivamente, raramente la depressione è diagnosticata e curata, addirittura spesso viene considerata dal personale medico come conseguenza ineluttabile del vivere in comunità (cioè una naturale conseguenza del processo di istituzionalizzazione). Anche nell'anziano la depressione è una malattia che va curata, non è una condizione esistenziale ineluttabile; un atteggiamento d'indifferenza e rinuncia da parte del medico, del care-giver e, più in generale, della struttura ospitante, non può che peggiorare il quadro o addirittura finire per determinarlo. Se ne rileva la necessità di tecniche d’intervento alternative o di supporto al trattamento farmacologico in grado di contenere il disagio psichico, svolgendo nel contempo, contrastando l'inattività, una funzione di prevenzione del deterioramento delle funzioni cognitive, dell'impoverimento e della disintegrazione della gamma dei comportamenti propri della persona, dell'isolamento sociale, della perdita di autostima. Tuttavia, proprio nel settore geriatrico con soggetti istituzionalizzati, è risultata più alta la percentuale di individui con bassi livelli di motivazione ad intraprendere esperienze di comunicazione con risvolti psicoattivanti. Così che l'anziano, più o meno consapevolmente, persiste in una sorta di condotta autodistruttiva d'inattività. Gli istituti di cura per lungo degenti, diventano, di fatto, strutture di custodia per l'anziano, favorenti l'eccesso di disabilità che si sviluppa non solo per il tipo di risposta individuale alla malattia, ma anche per il tipo di risposta del sociale, là dove molti problemi funzionali e psicologici reversibili e spesso di tipo reattivo, non sono oggetto di trattamento attivo. Sussiste pertanto la necessità clinica di individuare interventi capaci di ottenere in tempi brevi il consenso di anziani istituzionalizzati in Struttura Geriatrica, ansiosi e depressi, demotivati ad intraprendere qualsiasi esperienza psicoattivante o riabilitativa. Appare pertanto rilevante sottoporre a verifica sperimentale l'efficacia di alcuni interventi a supporto delle attività di relazione interpersonale, in funzione dell'ipotesi che lo stile di conduzione e le modalità di strutturazione delle sedute possa incidere in modo differente sul processo terapeutico e sui livelli di collaborazione dei soggetti. Analogamente è utile verificare se l'ipotesi che alcune iniziative di intervento di Counseling di gruppo possano favorire nell'anziano, mediante il confronto e la stimolazione reciproca, la riattivazione di meccanismi di compensazione fisici e psichici, il riappropriarsi dell'identità personale, l'ampliamento degli obiettivi da raggiungere, l'ampliamento dell’autostima, la riduzione della sintomatologia ansiosa e depressiva. In questa Struttura non mi è stato possibile organizzare incontri di gruppo con le stesse modalità della Struttura in cui, per prima, avevo proposto la sperimentazione, né mi è stato possibile utilizzare uno spazio che garantisse un minimo di tranquillità e riservatezza in cui poter tenere colloqui individuali. Ho potuto pertanto modellare i miei interventi sulla base delle condizioni logistiche pragmaticamente presenti, in sostanza fare dei “colloqui allargati”, in cui l’interlocutore poteva esprimersi liberamente ma ascoltato anche da altri soggetti estranei al “gruppo”, quali parenti o ospiti non attivamente coinvolti. Sono mancate, in pratica, le ipotesi di lavoro previste. All’inizio delle sedute di “gruppo”, ho sempre chiesto ai partecipanti se qualcuno avesse il desiderio di trattare una tematica specifica, proprio come avevo messo in pratica nella precedente sperimentazione. L’iniziativa personale in genere è risultata scarsa, ma con qualche stimolo proposto attraverso domande aperte, in genere correlate al loro vissuto tra un incontro e l’altro, i soggetti tendevano ad essere più propositivi. Anche in questo aspetto, la dinamica di gruppo è aderente alle riscontrate nella precedente sperimentazione: occorre facilitare l’inizio del colloquio prendendo l’iniziativa e poi incentivando i partecipanti con domande aperte piuttosto generali. . Essendo mancate le “ipotesi di lavoro” l’approccio in Counseling ha dovuto forzosamente improntarsi all’improvvisazione e non ad una conduzione programmata: ciò rende conto delle considerazioni di sintesi, in luogo di un puntuale riscontro analitico.

Ho avuto modo di notare che con l’interlocutore anziano non sempre è facile tentare di attribuire significato ad elementi riconducibile al canale non verbale della comunicazione quali, ad esempio, la postura del corpo o la mimica facciale, perché moltissimi di loro hanno deficit motori e/o utilizzano psicofarmaci che incidono in modo significativo su questi parametri. Il canale paraverbale è apparso, a mio parere, il più produttivo per gestire un approccio di Counseling con questa tipologia di Clienti: le patologie che inficiano in modo più o meno significativo la capacità di comprensione razionale di una comunicazione ma anche la povertà di stimoli psico-sensoriali propria della condizione di istituzionalizzato, rendono questi interlocutori molto suscettibili di fronte al tono di voce, all’atteggiamento empatico e non giudicante. Io credo che il solo fatto di poter parlare liberamente del proprio vissuto, anche in modo ripetitivo, e dei propri convincimenti spesso non ben orientati in una corretta localizzazione temporo-spaziale, sia di per se stesso utile ad attenuare l’ansia ed il sentimento di non adeguatezza che sovente stanno alla base della chiusura in se stessi tipica dell’involuzione senile.

Alcuni soggetti hanno manifestato sin dal primo incontro interesse e partecipazione, in particolare una Signora che chiamerò, con nome di fantasia per tutela della sua riservatezza, Agata, ricoverata in struttura con il marito; ella è stata il punto di riferimento perché, nel corso dei mesi le sue condizioni di salute sono scadute repentinamente. Dopo il primo mese di stage, ho dovuto cambiare il giorno di presenza, anticipandolo da mercoledì a martedì. Dopo due settimane alcuni ospiti, tra cui Agata, hanno chiesto esplicitamente il perché della modifica, “Perché il volantino dice che tu vieni al mercoledì”, dimostrando di aver preso coscienza dell’iniziativa e dimostrando di nutrire una certa aspettativa nei confronti della stessa. Agata è presente in struttura da circa due anni all’inizio del mio stage, parla volentieri della sua vita, segnata profondamente dalla morte avvenuta durante il parto dell’unica figlia. Dopo la drammatica esperienza, che rievoca ad ogni incontro, non ha più voluto avere figli ed ha condotto una vita “Modellata sulle esigenze del marito”. Agata siede sempre vicino a lui, impossibilitato a deambulare e non più in grado di parlare. Si tengono per mano quasi sempre, Agata racconta che si sono conosciuti molto giovani e che si sono sposati subito prima della partenza di lui per la guerra. Dopo una vita insieme, a seguito del presentarsi delle gravi disabilità del marito, Agata decide di andare a vivere presso la struttura in cui svolgo lo stage, spiegando che ormai non se la sentiva più di accudire da sola il marito. Lei è autosufficiente, lucida e ben orientata. Subito dopo le festività pasquali, una banale patologia da raffreddamento la costringe a rimanere a letto per qualche giorno. All’incontro immediatamente successivo alla sua guarigione la ritrovo profondamente cambiata: piange, ha paura perché dopo i giorni trascorsi aletto non riesce più a camminare da sola. Dedico all’ascolto delle sue ansie e preoccupazioni le due ore, anche gli altri ospiti presenti avvertono un cambiamento di atmosfera. Agata piange lacrime silenziose, stringe la mano del marito, parla del suo attuale stato, esprime la preoccupazione di “non poter più prendere un bicchiere di acqua a mio marito”. Dopo aver dato sfogo alle sue emozioni, riesce a qualificare la sua paura più concreta: ”Ho paura di morire prima di mio marito, perché allora lui sarà davvero solo”. Al termine dell’incontro Agata, supportata anche dalla testimonianza di altri ospiti che si erano prima di lei sottoposti a trattamenti fisioterapici, appare più ottimista di fronte alle sedute di fisioterapia che la attendono. Clara è invece un soggetto “difficile” da gestire da parte del personale. E’ una donna nubile, senza figli, fisicamente molto minuta, ben orientata nel tempo e nello spazio, è parzialmente autosufficiente, soffre di una patologia che richiede di attenersi ad una dieta piuttosto rigida. Nei colloqui avuti con Clara, la stessa si è sempre dimostrata molto collaborativa, raccontando volentieri aneddoti della sua vita e soffermandosi spesso sulle insoddisfazioni presenti nel suo vissuto. In particolare Clara nega la gravità della sua patologia, pur dimostrando di avere consapevolezza della sua necessità di cure; non accetta la dieta, vorrebbe mangiare liberamente affermando spesso che“tanto di qualcosa dovrò pur morire”. Clara si lamenta spesso col personale della Struttura, protesta ed assume atteggiamenti di aperta provocazione che le procurano poi, per sua stessa ammissione, sensi di colpa. Ho avuto modo di osservare in questa persona meccanismi di difesa quali la negazione di alcuni aspetti della sua condizione, e la razionalizzazione di fronte agli atteggiamenti di insofferenza che il personale mette in atto nei suoi confronti: “in fondo è colpa mia se mi trattano male, quando mi danno poco da mangiare io protesto, anche se poi mi spiace, lo vedo che hanno tanto da fare”. La negazione è spesso presente nei racconti dei soggetti anziani, come anche la rimozione e l’isolamento della componente affettiva di un avvenimento. Molti anziani istituzionalizzati hanno subito la perdita del coniuge e/o di un figlio. E’ soprattutto in questi soggetti che si nota l’isolamento della quota affettiva dell’evento, è evidente nella rievocazione, che appare neutra, quasi che l’episodio abbia coinvolto altre persone e non chi lo ha vissuto. Anche il soggetto Agata, rievocando la morte durante il parto della figlia, non ha manifestato emozionalità particolarmente evidente. Però lo sguardo di queste persone quando raccontano i loro lutti si sposta, non guardano nessuno in particolare. Credo che un futuro Counselor abbia molto da imparare da ciò, perlomeno io mi sono resa conto che quegli sguardi li rievoco spesso, probabilmente per effetto del controtransfert. Riflettere bene sulle mie emozioni mi ha aiutato a gestire le stesse di fronte ai pazienti, nel contempo mi ha procurato un effetto di amplificazione emotiva nel mio privato, risvegliando ricordi relativi ai miei lutti personali che avevo probabilmente tentato di soffocare. Molto probabilmente è una realtà con la quale dovrò confrontarmi spesso e, sicuramente, non potrò permettermi di sottovalutare il possibile impatto con i potenziali Clienti.

 

L’atteggiamento del personale operante nella Struttura è stato sin dall’inizio improntato all’indifferenza più assoluta. Nessuno ha mai posto una domanda né si è mai interessato in alcun modo all’iniziativa in corso, pur essendo presenti forti tematiche di contrasto tra gli operatori e da Direzione. Da parte del personale sono state messe in atto in più occasioni azioni di disturbo, quali non concedere l’utilizzo di una stanza per svolgere gli incontri, oppure interrompere frequentemente o, ancora, prelevare un ospite che stava interagendo per svariati motivi ( ad esempio un appuntamento con la parrucchiera).

La Direzione nella persona del Titolare della Struttura, al contrario, sin dai primi contatti ha dimostrato grande interesse per il Counseling e per le sue applicazioni. Oltre ad aver stipulato regolare convenzione per attuare lo stage, in diverse occasioni il Direttore ha segnalato problematiche emerse con ospiti e con dipendenti, richiedendo anche in maniera esplicita “consigli”, ottenendo ascolto, comprensione ed attenzione da parte mia. Anche di fronte alle mie argomentazioni in merito al dovere del Counselor di non fornire consigli bensì supporto, l’atteggiamento è rimasto improntato alla massima fiducia, non subendo limitazioni e/o frustrazioni.

Lo stage era stato presentato consegnando ad ospiti ed operatori un piccolo depliant (in allegato) nel quale erano indicate le finalità della presenza del Counselor tirocinante ed i suoi ambiti di competenza, con la possibilità di contattare direttamente anche fuori dall’orario di stage attraverso numero telefonico ed indirizzo e-mail, opportunità prevista per il personale e/o per i parenti degli ospiti, (questi ultimi ovviamente impossibilitati dalla loro condizione): ha mai comunicato alcunché.

Alla conclusione del periodo di stage trovano conferma le osservazioni tratte nello studio del secondo anno: per l’anziano istituzionalizzato il Counseling è una risorsa perché permette di godere di qualche momento di attenzione esclusiva e perché contribuisce a migliorare la comunicazione interpersonale, fortemente impoverita nei contenuti, che appaiono ripetitivi e stereotipati. Per l’Istituzione costituirebbe una risorsa, se utilizzata, purtroppo nel mio caso ho potuto rilevare indifferenza, che ho ipotizzato essere la risposta ad un sentimento di paura, attivato dal rischio di “rottura” di un equilibrio consolidato, la struttura si difende, il non cambiamento ed il rifiuto concedono il procrastinare a tempo indefinito una seria analisi dei perché.

Per me tirocinante, l’esperienza di lavoro con le persone anziane è risultata produttiva perché mi ha permesso di correggere e dimensionare meglio l’ideazione di “colloquio” che mi ero pregiudizialmente formata negli anni di corso. Il Counseling non è l’idilliaco intervento di relazione interpersonale con un cliente più o meno collaborante, da svolgersi preferibilmente in un ambiente gradevole e tranquillo. Il Counseling non è sentirsi appagati nel proprio bisogno di autoaffermazione. Il Counseling è spesso noioso, pesante, stancante: l’anziano ti racconta gli stessi episodi, a volte non ti riconosce, però ricorda che tu sei quella che “viene per farci parlare “ e sei anche quella che “viene ad ascoltare le nostre sciocchezze”. Ed io ho sperimentato prima delusione, poi dubbi, poi soddisfazione perché nonostante tutto ho proseguito. Oggi credo di aver concretizzato un pensiero: ogni volta ho ascoltato con attenzione, con partecipazione, ho sorriso, anche se per mille motivi avrei avuto solo voglia di piangere. Credo che per me questa esperienza abbia costituito l’equivalente delle ore di allenamento per l’atleta nei mesi prima di una gara, maturando nel contempo la consapevolezza che per me non ci saranno gare, ma tanti allenamenti.


IL PROGETTO DI STAGE ALL’ INTERNO DI DUE DIVERSI ISTITUTI SCOLASTICI.

Nel mese di marzo 2009 ho preso contatto con due diversi Istituti che ospitano scuole primarie di primo e secondo grado. Obiettivo: da parte mia avere l’occasione di interagire con ragazzi adolescenti e, nel contempo, favorire un possibile sbocco lavorativo post diploma offrendo alle istituzioni scolastiche la possibilità di “sperimentare” il contributo di un Counselor. L’Istituto YYYYY nella persona della Preside si dimostra molto interessato all’iniziativa, al punto che intercorre, a seguito della mia proposta, un colloquio con la Direzione di “ACCADEMIA SOCRATICA” ed un invio di materiale informativo. Poi silenzio sino alla fine di aprile quando mi si comunica che, ufficialmente a causa dei ridotti tempi dell’attività didattica, la proposta di stage non avrebbe avuto seguito.

La Preside dell’Istituto ZZZZZ, ricevuta analoga proposta, mi convoca di persona per avere maggiori dettagli. Il colloquio risulta molto produttivo: arriviamo persino a concordare che lo stage si potrebbe concretizzare in una serie di incontri di gruppo con ragazzi frequentanti la classe seconda, a cadenza settimanale, dal periodo post vacanze pasquali sino al termine dell’anno scolastico. Perfetto, preparo la richiesta da presentare ai primi di aprile al Collegio Docenti (in allegato) ed organizzo un incontro tra Preside e Direttore di “ACCADEMIA SOCRATICA”. Sembra procedere tutto per il meglio, quando, al momento in cui lo stage avrebbe dovuto iniziare, la Preside mi comunica che purtroppo il personale Docente e la componente genitori non hanno accolto l’iniziativa, fortemente caldeggiata da Lei stessa anche perché ben accolta dai ragazzi. Motivazione significata dal Preside, il timore che i ragazzi potessero riportare pensieri e/o contributi di carattere personale, detto in termini più concreti e testuali “che parlassero di fatti privati”.

Due tentativi e due rifiuti, un unico dato di fatto: esiste il timore che un “esterno” possa avere accesso agli utenti, ai soggetti che dovrebbero costituire il centro del sistema scolastico.

Esistono professioni che legano il proprio ruolo anche alla vocazione. Che si rappresentano non soltanto come un lavoro ma come una funzione che esprime passione e una “missione” che si svolge nonostante le frustrazioni e i mancati riconoscimenti. Sono le professioni incentrate sulle relazioni umane, che incidono sulla formazione degli individui, che non producono beni materiali e acquistabili ma che determinano la crescita di un Paese nell'era dell'alta tecnologia e della specializzazione produttiva. E' il caso degli insegnanti che a fronte di impegno, competenza, talento innato e capacità di relazione e comunicazione con gli altri, spesso vedono frustrato il loro ruolo, minato dalla mancanza di collaborazione che le famiglie degli studenti dovrebbe apportare. Altra causa di demotivazione e di possibile atteggiamento di chiusura, è il ricoprire (pressoché da metà del secolo scorso ad oggi) il ruolo di “lavoratori a mezzo tempo e a mezzo stipendio” come stigmatizza in un saggio citato in Bibliografia Paolantonio Marazzini. Una professione (a tutti i livelli) priva di carriera all’interno della struttura “scuola” e all’esterno, se si eccettuano i soli scatti stipendiali.

La figura del Maestro delle vecchie scuole elementari prima, e del Professore di scuola media poi, possedeva le caratteristiche dell’Autorità, e svolgeva un ruolo fondamentale nello sviluppo della socializzazione secondaria del bambino. Oggi non è più così. Gli insegnanti vedono delegittimato il loro ruolo educativo e propositivo, a fronte di un’istituzione famigliare sempre più debole nei legami che uniscono i suoi membri. E’ verosimile ipotizzare che il Docente medio, specie se prossimo all’età di pensionamento, non accetti di buon grado l’introduzione di una nuova figura professionale, quale può essere il Counselor, che può rischiare di diventare un nuovo elemento di destabilizzazione, dal suo punto di vista. Emblematico, a supporto di questa mia supposizione, il fatto che nessun Docente abbia voluto informarsi in modo più compiuto sulla proposta di stage proposta, un rifiuto che assomiglia ad una negazione delle problematiche presenti nell’Istituto stesso. Problematiche ben note alla mia persona, poiché mio figlio frequenta la scuola in questione. A titolo d’esempio riporto un episodio verificatosi nel mese di marzo. Come tutti i giorni mi trovavo di fronte all’ingresso della scuola ad aspettare mio figlio quando, improvvisamente, un padre che era anch’esso in attesa del proprio figlio si è scagliato contro un altro ragazzo, picchiandolo selvaggiamente di fronte a tutti i presenti. Solamente la Preside dell’Istituto pare rendersi conto delle gravi anomalie che si verificano in questo contesto, e sembra tenere in seria considerazione i pericoli per il futuro di questi ragazzi. Mi è parso invece che tra altri docenti si tendesse a minimizzare l’accaduto confinandolo in un angolo, non considerando nemmeno i danni che una simile scena può potenzialmente aver determinato in chi ha assistito impotente a reagire. E chissà che l’atteggiamento di nascondere tutto sotto il tappeto non possa autorizzare qualche ragazzo ad agire in modo similare in un futuro forse non tanto lontano.

 

POSSIBILI CHIAVI DI LETTURA DEL RIFIUTO.

Le novità ed i cambiamenti che ne conseguono implicano e richiedono un impegno materiale e psicologico notevole da parte di chi si trova a gestirle. La scuola è una struttura istituzionalizzante, con regole ed obiettivi formalmente definiti. Un intervento esterno spaventa il corpo docente e la componente genitoriale, specialmente se coinvolge direttamente l’utenza che presenta problematiche di tipo comportamentale. Il timore che ipotizzo abbia innescato il rifiuto, nasce a mio parere dal timore degli adulti che da parte dei ragazzi potessero emergere, durante gli incontri, elementi colpevolizzanti nei loro confronti. La negazione di un problema è una difesa del singolo, ma credo che possa applicarsi anche alle istituzioni, come già ipotizzato precedentemente, nel mio caso si può tradurre concretamente così: tu studentessa di Counseling mi proponi uno stage incentrato su possibili problematiche presenti al mio interno, se io struttura lo approvo riconosco di avere un problema al mio interno e allora ti rifiuto, così rifiuto il mio problema e posso continuare nella mia interpretazione di realtà, sicuramente più semplice da gestire.

La paura è presente, a mio avviso, anche nei confronti di un possibile cambiamento nell’atteggiamento dei ragazzi. Una “massa” che non prende coscienza di se risulta più gestibile di un gruppo consapevole. E’ presente inoltre il timore di “condividere” con un’altra figura professionale un mondo ritenuto dominio esclusivo del docente. Nel contesto educativo occorre relazionarsi assiduamente con i colleghi, con i superiori, con tutti i ragazzi, con i loro genitori e addirittura con i bidelli. Si è esposti al giudizio di tutti a 360 gradi con conseguenze spesso devastanti, sia a livello esistenziale che psicologico. In un momento critico e di radicale cambiamento, il docente vede il suo ruolo a rischio delegittimazione, in bilico tra il fenomeno dilagante del bullismo e l’indebolirsi della collaborazione scuola-famiglia. Il rischio concreto è rappresentato dalla riduzione della propria autostima e del senso di autoefficacia. L'autostima è l'azione di valutare se stessi come insieme di determinate caratteristiche, nonché il giudizio risultante da questa valutazione, che viene fatta sulla base di criteri ottenuti dal confronto delle proprie caratteristiche con quelle di altri soggetti. Il senso di autoefficacia parimenti si alimenta nell’ambito professionale col confronto con colleghi e studenti. L’inserimento di un Counselor all’interno di questo delicato sistema può essere stato percepito dal corpo docente come un vero e proprio pericolo, non intuendo in esso un possibile elemento di aggregazione o, comunque, una possibile risorsa.


L’ESPERIENZA MATURATA IN QUALITA’ DI VOLONTARIA PRESSO IL TRIBUNALE PER I DIRITTI DEL MALATO.

 

All’inizio dello scorso mese di gennaio, mi sono presentata ad un colloquio per una selezione di soggetti disposti a diventare volontari del Tribunale per i diritti del malato. La Presidente della Struttura ligure mi ha accettata ed inserita nell’organico che opera presso la sede inserita nell’ospedale di Sestri Levante. Al momento della mia presentazione, ho dichiarato che ero una studentessa di Counseling ad Indirizzo di Scienze Sociali, e che avrei volentieri applicato le nozioni in mio possesso relazionandomi con gli utenti. L’iniziativa è stata apprezzata e, da quel momento, ho avuto modo di relazionarmi con utenti molto diversi gli uni dagli altri ma con problematiche concrete e spesso dolorose, accomunati da un’unica necessità: essere ascoltati. La gestione tecnica (il problema legale relativo ad episodi di “malasanità”) e di relazione d’ascolto sono avvenuti nella più assoluta libertà e discrezionalità di intervento.

Col tempo ho avuto modo di apprendere che è possibile distinguere gli utenti del Tribunale in due macro gruppi: coloro che pensano a lungo prima di prendere contatto e venire a raccontare la propria storia, e coloro che arrivano all’improvviso, spesso alterati, desiderosi di essere ascoltati a lungo e in modo esclusivo.

Mi sono sforzata sempre di ascoltare attivamente l’interlocutore, utilizzando il linguaggio paraverbale e quello non verbale per trasmettere calma e la sensazione che nessuno era sotto giudizio. I colloqui che ho intrattenuto sono terminati spesso con un interlocutore più sereno e disposto ad inquadrare meglio la situazione che era venuto ad esporre. In particolare riporto il caso di un Signore di circa 65 anni. Lo chiamerò, con nome di fantasia, Sandro. Lo incontrai a metà marzo, lui si era presentato in ufficio la settimana precedente, trovando altre due volontarie, poiché era arrivato pochi minuti prima della chiusura, Sandro era stato invitato a ritornare la settimana dopo, magari con un resoconto scritto della sua storia. E così mi ritrovai ad ascoltare una storia molto simile a tante altre: un ricoverato che chiede all’infermiera un aiuto e una informazione molto banale del tipo: “Ho ancora la febbre?” e viene tacciato in malo modo. Apparentemente uno dei tanti casi di segnalazione di comportamento non idoneo da parte del personale di un reparto. Il Signor Sandro, in realtà aveva molta paura di poter soffrire di una ricaduta del male che aveva determinato il ricovero, e voleva procedere nella sua denuncia “Perché non voglio correre il rischio di finire di nuovo in quel reparto dove le infermiere ti maltrattano”. Ho lasciato raccontare la storia senza mai interrompere, solo dopo che il Signor Sandro ebbe terminato la sua confessione, mi permisi di fargli notare che la patologia di cui soffriva poteva essere tranquillamente tenuta sotto controllo, e che, anche se non era da escludere un successivo ricovero, non poteva sapere se avrebbe incontrato o meno le stesse persone. Sandro aveva, a mio avviso, messo in atto una difesa di alto livello: lo spostamento. Aveva trasferito il timore di ammalarsi di nuovo sui presunti maltrattamenti subiti in reparto. A tutt’oggi mi risulta che, successivamente al nostro colloquio, Sandro non abbia più sporto segnalazione alcuna. Altro caso molto significativo è quello di Maria, signora sessantenne che prende contatto telefonico per segnalare la propria situazione sanitaria e la sua necessità di sottoporsi ad un esame specialistico. La sua problematica apparente era quella di dover pagare il ticket sulla prestazione pur avendo lei stessa una patologia conclamata. Prima di giungere a quantificare la sua richiesta-lamentela, la signora Maria aveva raccontato telefonicamente tutte le traversie da cui si sentiva afflitta, non ultima la condizione di recente vedovanza. La telefonata ha avuto una lunga durata, al termine del colloquio abbiamo fissato un incontro per la settimana successiva. Maria non si è presentata al colloquio, ma ha telefonato altre due volte, ricevendo la risposta al quesito posto in origine, ma soprattutto trovando ascolto per la sua solitudine. Quasi tutti gli utenti del Tribunale dei diritti del malato sono persone che sentono di avere subito una forma di ingiustizia, per molti di loro è già sufficiente poter parlare liberamente per risolvere la loro sofferenza. Naturalmente vi sono anche casi da mettere prontamente in lista per l’Ufficio Legale, ma anche in questi casi un buon ascolto non giudicante aiuta a focalizzare meglio i termini delle proprie problematiche, spogliandoli di contenuti di rivalsa e di aggressività. Vi sono poi casi in cui le nozioni apprese in ambito di Psicopatologia e di Neuroscienze si rivelano fondamentali per la gestione di un contatto solo in apparenza congruente e razionale.

Agli inizi di maggio si presenta Anna, signora quarantenne madre di tre figli e casalinga. Viene a chiedere agli operatori una consulenza su ciò che lei ritiene essere un abuso subito: l’essere stata sottoposta ad un T.S.O. Anna parlava in modo all’apparenza tranquillo del suo ricovero coatto, voleva insistentemente però che la sottoscritta leggesse la sua lettera di dimissione per poi sottolineare gli “errori” che, a suo dire conteneva. Un Volontario non formato, facilmente sarebbe incorso in tentazione di sposare in pieno le argomentazioni di Anna, cosa che ha messo in atto la collega in turno con me quel giorno. Io, mantenendo un atteggiamento non giudicante e suppongo pacato e tranquillo, ho ascoltato senza interrompere, consapevole che la diagnosi riportata nel referto giustificava appieno il disposto del T.S.O. e il comportamento che vedevo attuarsi davanti ai miei occhi. Non ho assolutamente approfondito le argomentazioni di Anna, invitandola esclusivamente a produrre ulteriore documentazione medica da valutare successivamente. Senza le nozioni relative ai comportamenti tipici delle persone affette da psicosi e senza le nozioni base sulle applicazioni cliniche di indagini quali E.E.G. e T.A.C., nonché sulle modalità di attuazione di un trattamento sanitario obbligatorio, sarebbe stato molto difficile cercare di mantenere un atteggiamento neutro nei confronti di Anna.

Riporto infine il caso di Luisa, una anziana signora che si è rivolta al Tribunale per i Diritti del Malato per chiedere ascolto e, se possibile, aiuto. In questa occasione si sono verificate tutte le circostanze per gestire un vero e proprio colloquio di Counseling. Mancavano pochi minuti alla chiusura dell’ufficio ed io ero rimasta sola quando si presenta questa persona, molto ben vestita, curata e apparentemente tranquilla. Luisa chiede se mi è possibile riceverla nonostante l’ora tarda e, rassicurata in tal senso, confessa di aver avuto paura ad entrare prima perché temeva di non ricevere attenzione. Effettivamente il caso da lei segnalato riguardava in modo specifico il campo della giurisprudenza, molto meno l’ambito sanitario. Fatte queste premesse a Luisa, le ho comunque offerto la possibilità di raccontare il suo problema tranquillamente. Questa persona si è trattenuta per oltre un’ora a parlare delle sue sofferenze, dei suoi dispiaceri, finendo col trascendere l’argomento motivo delle sue richieste. Il colloquio ha avuto termine con tanti ringraziamenti da parte di Luisa, perché, a suo dire, anche se non ha ricevuto risposte concrete al suo problema, ha avuto modo per la prima volta, di essere ascoltata. Due casi diversi che hanno prodotto però la convinzione che ogni lezione ascoltata in classe ha, prima o poi, trova riscontro nella vita di potenziali interlocutori.

L’esperienza si è rivelata molto positiva, ho potuto agire professionalmente senza subire ostracismi, in un ambiente accogliente ed appartato. Mi ha anche gratificato la sensazione di poter essere concretamente utile a qualcuno. Il rischio di autocompiacimento è stato molto alto. Non nego la contentezza provata nel sentirmi utile esercitando quello che vorrei diventasse il mio lavoro ma credo di essere stata in grado di mantenere sempre un atteggiamento neutro ma caldo, partecipe delle emozioni del mio interlocutore, ma non da esse travolta. Contenta di essere utile e non, per essere stata apprezzata. Ritengo essere questo un buon traguardo, essendo consapevole di essere una persona affamata di carezze “Berniane”.


IL CORAGGIO DI ESPRIMERE SE STESSI, LA LIBERTA’ DI CREDERE IN SE STESSI.

Dorcas Gustine

“Io non ero amato dagli abitanti del paese,

ma tutto perché dicevo

proprio quello che pensavo,

e affrontavo quelli che mi offendevano

protestando direttamente,senza nascondere o covare

segreti rancori o risentimenti.

L’atto di quel ragazzo di Sparta fu molto apprezzato,

che nascose il lupo sotto il mantello

lasciandosi divorare senza un lamento.

Ci vuole più coraggio, io credo,a staccarsi il lupo di

Dosso

Per combatterlo apertamente, anche per la strada,

in mezzo a polvere e urla di dolore.

La lingua può anche essere un membro ribelle

Ma il silenzio avvelena l’anima.

Biasimatemi se volete, io sono contento.”

 

EDGAR LEE MASTERS “ANTOLOGIA DI SPOON RIVER” (Mondadori, Milano !987), Traduzione di Antonio Porta.

Il silenzio logora il corpo e la mente, il coraggio di esprimere le proprie emozioni ci dà la forza di diventare ciò che siamo, senza ipocrisie e false verità. Un pensiero riflettuto a lungo in passato, posto in essere nel presente, un piccolo proposito per il futuro. Diventare consapevoli di se: una conquista preziosa, da custodire con cura, da vivere senza paura.

 

CONCLUSIONI.

Come precedentemente esposto nell’introduzione di questo elaborato, esso rappresentare il naturale proseguimento di due precedenti elaborati citati in bibliografia. Il progetto iniziale ha forzosamente subito modifiche ed ampliamenti a causa di alcune ipotesi di lavoro non esistenti di fatto. D’altra parte ritengo che ogni Counselor non operi con “ipotesi di lavoro” precostituite e debba prontamente riconvertire e/o ampliare le sue forme di intervento. Le aree in cui si è svolto lo stage applicativo sono state pertanto una Residenza Protetta per la terza età dove il lavoro non ha avuto alcun supporto di collaborazione ma anzi forme di ostracismo. L’ampliamento dell’indagine mediante proposta di volontariato presso due strutture scolastiche ha confermato che l’ostracismo riscontrato nella Residenza Protetta, era presente come barriera difensiva anche presso l’Istituzione “Scuola” considerato che due Collegi Docenti (sovrani in materia di Didattica) hanno votato negativamente alla proposta ed anche alcuni genitori (non so se dei Consigli di Classe o del Consiglio d’Istituto) hanno manifestato parere contrario. Di questa fenomenologia umana si è tentata una chiave di lettura, ma la tematica della “barriera difensiva” del pianeta Scuola meriterebbe una disamina più puntuale. Per quanto riguarda una riflessione del tutto personale, non immaginavo minimamente che avrei potuto creare e concretizzare esperienze applicative del Counseling in piena autonomia. Tre anni or sono non avevo neppure una nozione concreta di cosa fosse il Counseling. Profondamente segnata da eventi dolorosi, mi limitavo a vivere modellando la mia vita all’insegna di una effimera stabilità. Ho iniziato il corso perché si conciliava sia con la gestione del mio lavoro che, soprattutto, con gli impegni derivanti dall’avere una famiglia. Stabilità e programmazione erano gli elementi di difesa che usavo regolarmente nel mio quotidiano. Credevo che il poter controllare il più possibile di ciò che mi trovavo ad affrontare fosse un valido baluardo di difesa contro l’incertezza del domani. Molto lentamente, frequentando le lezioni settimana dopo settimana, inevitabilmente il castello di carta ha iniziato a scricchiolare, per crollare definitivamente all’inizio del terzo anno. La stabilità cancellata per sempre, il programmare d’un tratto sostituito dal vivere giorno per giorno, la vita rivoltata come un guanto. Concretamente sperimento sulla mia stessa persona quanto sia importante incontrare persone capaci di aiutare senza imporre, senza giudicare, capaci di trasmettere calore e vicinanza quando si avverte solo il gelo della paura e ritornano alla mente i versi di una celebre lirica rock:

…Come vorrei, come vorrei che tu fossi qui

Siamo soltanto due anime perdute che nuotano in una vasca di pesci

Anno dopo anno, correndo sul solito vecchio terreno

Che a abbiamo scoperto?

Le stesse vecchie paure…

In altri termini, incontrare qualcuno che, anche senza saperlo, si relazioni con gli altri con lo stesso rispetto proprio di “due anime perdute che nuotano in una vasca di pesci”. Poi la vita riprende il suo corso, con un nuovo assetto, diverso, difficile, molto più consapevole. Ho compreso l’importanza di tentare di sperimentare la professione per la quale studio nei contesti in cui appare di utilità e di aiuto. All’inizio del triennio avevo una idea pregiudizievole del Counselor che lavora in un contesto pulito, sereno e tranquillo, con Clienti che soffrono certamente, ma non troppo: per loro ci sono altri specialisti. E invece no. Se è vero che il Counseling è soprattutto un modo di essere e di porsi nei confronti del nostro Prossimo, io devo essere in grado di relazionare con qualsiasi Cliente: questo è stato il vero banco di prova e ho voluto portare la mia persona a sperimentarsi in particolare dove si soffre per davvero. Là dove ci sono donne e uomini che non hanno più nessuno, che hanno sofferto tanto da non aver più lacrime, che sono stati maltrattati e hanno paura di non essere creduti. Là dove ci sono donne e uomini che sono ammalati ed hanno paura di morire e allora cercano qualcuno che li ascolti. Ho preso coscienza, oggi, che ciò che conta veramente è avere il coraggio di essere se stessi senza ipocrisie, soprattutto senza nascondersi neanche dietro il Titolo di Counselor. Il vero Counselor è anche lui “un’anima che nuota in una vasca di pesci” e pertanto, per sua stessa pari condizione con il suo Prossimo, non giudicante. Quando si soffre e non ci si sente giudicato si comprende il valore di non giudicare, e se si fa proprio questo pensiero, forse allora sei sulla strada giusta e “se la strada giusta è stata intravista al mattino, la sera puoi anche morire” seguendo in ciò la saggezza di Confucio.

Il vero Counselor deve essere accettante ed io mi sono chiesta e contino a chiedermi: so accettare gli altri per quello che essi sono? Vorrei rispondere di sì, ma onestamente non sono sicura, mi manca l’esperienza per poterlo affermare o forse rimane una presunzione dare una risposta. Posso però sostenere che, sino ad ora, ho ascoltato tutti coloro che ho incontrato in contesto di applicazione del Counseling senza giudicare nulla e nessuno. Per quanto attiene all’empatia, posso probabilmente affermare che è il mio tallone di Achille su cui non abbassare mai la guardia. Tendo ad amplificare la risonanza interiore che l’Altro produce nella mia persona, con le conseguenze del caso. So di avere un limite e questo rappresenterà il mio costante banco di prova. Le conclusioni sono assai semplici, spero non semplicistiche. Il corso di studi mi ha aperto nuovi modi di vivere, ha dato “nome e cognome” ad un insieme di sentimenti ed umane emozioni prima presenti ma in modo confuso e non organizzato. Ho avvertito la necessità di mettere a frutto ciò che stavo apprendendo, ho trovato modo e maniera per poterlo attuare in situazioni reali ed agendo in tempo reale. Anche quando mi è stato detto “no”, ho affrontato il rifiuto come una esperienza da cui trarre un autentico insegnamento, per migliorare in futuro i prossimi tentativi. Ho avuto la soddisfazione di propormi e, conseguentemente, essere stata accreditata come referente per le tematiche afferenti al Counseling per il giornale on-line “DentroSalerno”, in questo caso ho ricevuto un sì che mi ha motivato tanto.

Avendo io vissuto situazioni di disagio, ho voluto fortemente tentare le sperimentazioni del Counseling là dove il disagio vive e si moltiplica: nei luoghi dove l’individualità viene spenta, soffocata. In una casa di riposo si è solo numeri paganti, che, possibilmente, non creino problemi prima della morte. Negli ospedali si è spesso vittima di abusi più o meno gravi, soprattutto si è nella condizione di subire passivamente l’autorità dei medici e degli infermieri, in una condizione di sudditanza aggravata dalla condizione della malattia e della sua possibile evoluzione, nelle scuole sia i docenti che gli alunni sono contemporaneamente vittime e carnefici, prigionieri di un meccanismo nel quale ambedue le categorie sono necessarie l’una all’altra. Il Counselor, a mio avviso, può fare molto. Perché allora il “no”, la “barriera protettiva” alzata dall’Istituzione? Certamente è un aspetto di questo percorso che forse non è risultato ben evidenziato nel corso del triennio scolastico, ma è indispensabile rendersi conto che la vita reale è fatta di questo, di dolore, di paura, di difesa, di diffidenza, di persone che possono essere inconsapevoli Clienti. Per me stessa spero di riuscire a diventare per chiunque una persona capace di accettare, di non giudicare, di essere empatica con tutta se stessa: un banco di prova permanente.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

APPENDICE 1

 

 

APPENDICE 2

 

Alla cortese attenzione della Preside, Prof. Franca Alfisi,

All’attenzione del Collegio Docenti

 

Oggetto: proposta di attivazione stage in Counseling ad indirizzo di Scienze Sociali presso l’Istituto “F. De André”

 

Il Counseling o “RELAZIONE DI AIUTO” è un’attività di supporto e di orientamento verso quelle persone che evidenzino disagi emozionali e di relazione sociale; Il Counselor è il Professionista che aiuta il suo Assistito (o i Gruppi Assistiti) a superare quei problemi di relazione e/o di interazione sociale che impediscono di esprimersi ed interagire pienamente e liberamente.

Lo stage può, sinteticamente, essere costituito da una serie di incontri di Counseling di gruppo, rivolta agli Allievi delle classi seconde, incentrata sulle tematiche dell’emozionalità in età adolescenziale (vedi in dettaglio l’allegato).

Ringraziando anticipatamente per l’attenzione prestata, voglia gradire i miei migliori saluti

Casarza Ligure, 25 marzo 2009 Giovanna Rezzoagli Ganci

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

RINGRAZIAMENTI.

Questo elaborato nasce dopo un lungo periodo di vissuto non facile, pertanto l’Autrice ringrazia di cuore le persone che, in ruoli e contesti diversi, hanno contribuito e concretamente facilitato la stesura dello stesso:

Il Professor Maurizio Biffoni, Direttore e Docente di “Accademia Socratica”, per aver supportato il mio lavoro e per aver accettato di svolgere funzione di Relatore dello stesso;

La Professoressa Sara Cavicchioli, Docente di “Accademia Socratica”, per avere sempre avuto la pazienza di ascoltare e la saggezza per confortare;

Il Dottor Dante Tubino e la Dottoressa Chiara Tubino, titolari della Residenza Protetta presso la quale ho potuto svolgere il mio stage, per avermi aperto la porta della loro Struttura senza riserve;

La Professoressa Anna VIttori, Presidentessa del “Tribunale dei diritti del malato”, per aver concesso alla sottoscritta di prestare opera nella sede da lei diretta, consentendo, di fatto, l’applicazione del Counseling in una Istituzione aperta al pubblico in piena libertà;

La Professoressa Franca Alfisi, Preside dell’Istituto Scolastico a cui ho presentato proposta di stage, per l’interesse e l’apprezzamento personale dimostrato;

La Dottoressa Rita Occidente Lupo, Direttrice Responsabile della testata giornalistica “Dentro Salerno”, per aver concesso alla sottoscritta di collaborare al suo giornale in veste di Counselor Tirocinante;

I ringraziamenti più personali vanno a mio marito Salvatore Ganci e a nostro figlio Alessio, perché, senza di loro nessuna riga di questo lavoro sarebbe mai stata scritta, a loro il merito di avermi incoraggiato costantemente e concretamente consigliato nelle loro rispettive competenze di Relazioni Scientifiche e di Informatica.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

BIBLIOGAFIA GENERALE

V. Barbolini, G. Rezzoagli Ganci “La Sindrome da Istituzionalizazione”, (Accademia Socratica, Anno Accademico 2006/2007).

G. Rezzoagli Ganci, “Il colloquio emozionale di gruppo come trattamento della Sindrome da Istituzionalizzazione: sperimentazione nella struttura per la terza età”, (Accademia Socratica, Anno Accademico 2007/2008).

B. Geneway, R.S. Katz, Le emozioni degli Operatori nella Relazione di aiuto, (Erickson, Trento, 2003).

R. May, L’uomo alla ricerca di sé, (Astrolabio, Roma, 1983)

R. May, L’Arte del Couseling , (Astrolabio Roma 1991).

U. Galimberti, Psicologia, (Garzanti, Milano, 1999).

C. Rogers, La terapia centrata sul cliente , (Martinelli, Firenze, 1970).

M. Boccardi, La riabilitazione nella demenza grave, (Erickson, Trento, 2007).

Riferimenti specifici nel testo.

Edgar Lee Masters, Antologia di Spoon River, (Mondadori, Milano !987), Traduzione di Antonio Porta.

P. Marazzini “L’insegnamento della Fisica: 1945-1965 in Per una storia della Fisica italiana – 1945-1965, a cura di G. Giuliani (La Goliardica Pavese, Pavia 2002) pp. 193 – 258.

Potrebbero interessarti ...