Dal Novum Organum alla cellula artificiale


Cellula artificialeLa costruzione in laboratorio di un cromosoma per mezzo di computer e di un sintetizzatore di Dna, progettata una quindicina di anni fa e ora realizzata dall’équipe del J. Craig Venter Institute a Rockville (San Diego), rappresenta senza ombra di dubbio un altro passo verso quel dominio dell’uomo sulla natura, cioè verso quell’Instauratio magna preconizzata da Francesco Bacone nella prima metà del XVII secolo, che, grazie all’applicazione del metodo sperimentale e agli strumenti messi a disposizione dei ricercatori dalla tecnica, dovrebbe progressivamente liberare l’umanità da tutte quelle false credenze, o idoli, che le impediscono di esercitare tutto il potere che può derivare dal sapere. Ne sembra persuaso lo storico Aldo Schiavone che, commentando la notizia sulla “Repubblica” del 22/05/10, scrive con enfasi non propriamente scientifica: “E’ il nuovo millennio che davvero si apre. Dobbiamo salutare l’evento con gioia e con speranza. Si è conclusa la nostra preistoria: stiamo diventando adulti”.


Forse Schiavone non ha fatto caso al curioso capovolgimento della prospettiva umanistico-rinascimentale della libertà e della dignità dell’uomo che il suo entusiasmo per le meraviglie del progresso biotecnologico pone in atto: non più nani sulle spalle dei giganti, ma giganti (artificiali) sulle spalle di quei nani preistorici che, a quanto pare, secondo l’ottica di Schiavone (in questo buon allievo dell’autore del Novum Organum), erano i nostri padri e nonni ancora così limitati, fiaccati e falcidiati dai loro malanni “naturali” e dai loro pregiudizi morali e religiosi. Dunque la nostra generazione sarebbe più fortunata di quella che ci ha preceduto, e la prossima sarà ancora più fortunata della nostra, e così via? E fino a quando? Arriveremo un giorno, neanche troppo lontano, all’immortalità della nostra vita su questa madre terra sempre più saccheggiata?

E’ la tesi sostenuta dallo stesso Schiavone nel saggio “L’uomo e il suo destino” nel volume a più voci Che cosa vuol dire morire (Einaudi, 2010): “Credo che la mia generazione, e forse le due o tre venute subito dopo, saranno le ultime ad avere un’esperienza della morte come quella che la specie umana ha subito sin dal suo inizio – un’esperienza che nei suoi termini materiali, biologici, non è mai cambiata. A modificarsi nel corso del tempo, sono state certo le elaborazioni culturali che l’umanità ha costruito intorno alla morte, ma l’evento nella sua nudità oggettiva è rimasto identico a se stesso, completamente al di fuori del nostro controllo. Questa lunghissima continuità sta finendo, e si tratta di un mutamento di portata sconvolgente. Esso riguarderà non soltanto la morte, ma anche la nascita: l’ingresso e l’uscita della vita……”.

Voi avete capito, vero? L’ingegneria genetica sta facendo, è il caso di dire, passi da gigante, tanto che sarà possibile a breve programmare il sistema immunitario dei nascituri, e fors’anche il loro carattere, e magari - perché porre limiti alla scienza? – le loro doti intellettive e persino i loro talenti artistici (ovviamente per chi se lo potrà permettere). Ma non sconfiniamo nella fantascienza, teniamoci al concreto: è indubitabile che la durata della vita media va sempre più aumentando; si vive più a lungo nella misura in cui migliori condizioni di vita, l’igiene, le cure, i progressi della ricerca farmaceutica, della chirurgia, delle neuroscienze e della biologia allontanano il momento in cui il nostro organismo, esaurite le sue ultime riserve di energia vitale, lascia gli ormeggi e smette di funzionare.

In questo modo l’umanità (per ora quella parte di umanità che beneficia appunto dei progressi biotecnologici) si allontana, di scoperta in scoperta, di organo artificiale in organo artificiale, di protesi in protesi, di trapianto in trapianto, di innesto cellulare in innesto cellulare, da quella che la tradizione filosofica chiamava fino a poco tempo fa “natura umana”. Il prezzo da pagare per modificare le cose considerate immodificabili consiste quindi nella graduale sostituzione di ciò che viene dalla natura con i ritrovati artificiali provenienti dai laboratori dei più prestigiosi istituti di ricerca biomolecolare, come quello del miliardario scienziato e filantropo (?) americano Craig Venter. In questa prospettiva, la consueta e tradizionale distinzione tra “naturale” e “artificiale” è destinata a perdersi in un continuum in cui sarà sempre più difficile stabilire dove finisce la natura e dove comincia l’opera umana (sempre che l’aggettivo “umano” non perda anch’esso di significato).

Qualche perplessità etica è dunque comprensibile. L’entusiasmo acritico di Aldo Schiavone non è per niente condiviso, ad esempio, dal filosofo Giovanni Reale: “Si è perduta la saggezza della giusta misura. La Chiesa, sì anche la Chiesa, è vittima di un paradigma culturale dominato da un’idea della tecnologia così invasiva, così totalizzante, così gonfia di sé e dei suoi successi da volersi sostituire alla natura.” (Op. cit.) E quindi, dato che la natura è figlia di Dio, anche a Dio stesso. Me il dio della tecnica come sarà? Migliore o peggiore del vecchio e buon Dio Padre, artigiano onnipotente creatore del cielo e della terra?
Aldo Schiavone, beato lui, non ha dubbi.

Per fortuna (o per destino) c’è ancora qualcuno che persevera nel dubitare.

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