"Coronavirus: è panico collettivo ma immotivato"

Inviato da Stefano Agati

corona virus

INTERVISTA AL SOCIOLOGO STEFANO AGATI

“Coronavirus: è panico collettivo, ma immotivato”

Intervista pubblicata il 29 febbraio 2020

HABITANTE

Magazine Online . http//www.habitante.it

dott. Claudio Pasqua Direttore Responsabile di Redazione

 

Quanto l'isteria collettiva cui abbiamo assistito in questi giorni (minacce alle minoranze cinesi in Italia, supermercati presi d'assalto) sono frutto di una mancanza di informazione e di presa di coscienza da parte della collettività? 

L’isteria collettiva è un fenomeno psicosociologico che la storia umana ha registrato nei secoli, anche attraverso manifestazioni forti ed inquietanti come quelle del “Ballo di San Vito” o delle “Streghe di Salem”.

 

Con l’avvento del coronavirus l’isteria collettiva si è concretizzata con episodi di minacce alle minoranze cinesi in Italia, e si è manifestata soprattutto in ambienti di basso livello culturale, da parte di persone particolarmente ineducate ed ignoranti, e questo attiene alle pulsioni profonde degli esseri umani o di alcuni di essi e alla loro vita collettiva. Una modalità che consiste nell’individuare una vittima o più vittime all’interno di un gruppo (popolo, etnia, scuola, squadra, famiglia) per poi spingerla ai margini di quel gruppo permettendo loro di convogliare la violenza endemica verso un obiettivo esterno. Un’altra reazione isterica al coronavirus è stata la presa d’assalto ai supermercati che ha origine da un’emozione primaria come la paura degenerata però in panico. Ma perché succede questo? A valle, cioè a diretto contatto con l’uomo della strada, l’informazione non manca, anzi è sovrabbondante e ridondante, ma spesso si tratta di un’informazione fuorviante e di scarsa qualità. I media, secondo il sociologo Ulrick Beck, per aumentare audience e vendite alimentano la paura collettiva del rischio o attribuiscono eccessivo risalto alle minacce. Aggiungerei che le motivazioni potrebbero essere anche più subdole e profonde, ma non è questo il luogo e il momento per approfondire. A monte, cioè prima del processo informativo, “né la scienza né la politica al potere sono nella posizione di definire o di controllare razionalmente i rischi” (Beck U.), infatti la complessità di molte situazioni porta a divergenza di opinioni tra gli stessi esperti sulla gravità del rischio e sulla pianificazione delle procedure di sicurezza. La conseguente perdita di fiducia e di rispetto per i media, le istituzioni e gli esperti portano la gente alla consapevolezza predetta da Ulrick Beck: “viviamo in un mondo fuori controllo”, e spiegano almeno in parte gli atteggiamenti di smarrimento e di isteria collettiva che stiamo vivendo in questo particolare momento.

 

Quanto i rituali sono importanti?  

La paura è quella sensazione di pericolo che proviamo di fronte a una minaccia. Come dice la storica Joanna Bourke nel suo libro dal titolo “La paura”, “uno spettro si aggira per l’umanità: lo spettro della paura. La morte ci guarda negli occhi. Il pericolo è in agguato in ogni ambito della vita quotidiana. A volte una persona inquietante o un oggetto minaccioso sono riconoscibili: il terrorista, le fiamme che divorano il soffitto, la bomba all’idrogeno. Più spesso l’angoscia che ci sopraffà ha un’origine interiore: il panico irrazionale nell’uscire di casa, il timore di fallire, una premonizione di sventura. Sovente sembra che non ci siano limiti alle minacce”. Nasce così la paura di affrontare i “rischi” (sanitari, ambientali, economici, dello stile di vita, dei rapporti interpersonali, della criminalità) derivanti da una specifica azione, e la paura dei “pericoli” che invece dipendono da elementi esterni difficilmente controllabili. Conoscere il pericolo significa stabilire ed eventualmente assumere il rischio di gestire ciò che è controllabile. Quando il pericolo deriva da qualcosa che non conosciamo anche i rituali assumono importanza, la gente tendenzialmente ricorrere ai rituali delle “narrative di controllo formali”, come protocolli, teorie della probabilità o procedure di emergenza, mentre attraverso le “narrative di controllo informali” le persone si rassicurano utilizzando simbologie e formule tipiche del mondo spirituale come ad esempio la preghiera o addirittura gli stereotipi e le modalità della scaramanzia. Nel caso del coronavirus si evidenziano rituali di rassicurazione tipici delle narrative di controllo formali, come la dichiarazione dell’infettivologo Matteo Bassetti: “Non è un’influenza devastante, curandola ci stiamo accorgendo che è simile a un’influenza come evoluzione”, oppure analizzando le probabilità statistiche, dove risulta che solo il 3% dei contagiati muore. Mentre tra i rituali di rassicurazione tipici delle narrative di controllo informali, in questo momento non primeggia solo la preghiera ma addiritturaè disponibile per chi ci crede, un prezioso e possente rituale magico taumaturgico proposto da un noto “mago”, che potrete celebrare in solitudine nella vostra magione o altrove ad libitum. “Se farete ciò senza nulla omettere, la vittoria finale sarà conseguita e voi sarete salvi”, promette risolutamente “l’operatore dell’occulto”, che invita i suoi diletti a spargere la novella.

 

Quanto è importante il ruolo dei media sociali oggi (e ci riferiamo anche ai social  network) nella creazione del panico morale, nella diffusione di Fake  News o aspettative nei confronti  delle  minacce come il Coronavirus? 

Come dice il sociologo di origini sudafricane Stanley Cohen: “Di tanto in tanto le società sono soggette a periodi di panico morale”.  Il concetto sociologico di “panico morale” nasce con l’opera di Cohen, Folks Devils and Moral Panics nel 1972. Nel caso del coronavirus proprio in questi giorni vi è stata la lapidaria ammissione del giornalista Piero Sansonetti sul ruolo dell’informazione nell’emergenza sanitaria per il Covid-19: “Noi giornalisti abbiamo provocato il panico. Sembrava che in Italia ci fosse la peste”. Poco dopo anche il Presidente del Consiglio italiano dichiara: “E’ il momento di abbassare i toni, dobbiamo fermare il panico”, e sembrerebbe che la direzione generale della RAI sia stata redarguita in modo categorico: “basta allarmismi!”. Inoltre è intervenuto il Ministero degli esteri che ha concepito un piano contro le fake news sull’Italia nel resto del mondo. In effetti si è compreso e si è intervenuti in ritardo per arginare le conseguenze della paura incontrollata diffusa dai media in Italia e nel mondo.

Questi fatti dimostrano come il concetto di “panico morale” sia attuale e concreto e continui ad essere considerato e studiato dai sociologi moderni (come la britannica Angela McRobbie)  per sottolineare il ruolo sostenuto dai mezzi di comunicazione (stampa, telecomunicazioni, social network) nell’influenzare atti devianti, considerando questo fenomeno in grado di alterare i meccanismi della percezione della gente, generando una sorta di “profezia che si autoavvera” in grado di alimentare panico e conseguenze di più ampia portata.

 

Cosa possiamo imparare dal passato e da questa emergenza, osservando il tutto con gli occhi di un sociologo? 

La memoria è la capacità di imparare dal passato, e rappresenta una risorsa per progettare il futuro, un meraviglioso strumento per elaborare la nostra esperienza umana. Ad esempio l’Organizzazione mondiale della sanità pubblicò un documento di sintesi sulle azioni intraprese durante il picco della Sars, evidenziando anche le lezioni apprese sul versante scientifico. In questo caso un grande passo in avanti consisterebbe nell’abbandonare le pratiche zootecniche e veterinarie meno igieniche e più vecchie. Tuttavia nel caso del coronavirus la lezione non è stata adeguatamente recepita, in particolare nel mercato degli animali di Wuhan risulterebbe evidente che non sarebbero state adottate sufficienti precazioni sanitarie, quindi la consapevolezza raggiunta fatica a tradursi in qualcosa di concreto. Resta la tensione, la speranza e la fiducia che grazie alle nuove tecniche hi-tech la comunità scientifica mondiale possa fornire concretamente e velocemente gli strumenti per fronteggiare le minacce di questa realtà globalizzata. Ma negli errori del passato e del presente emerge il tema di fondo analizzato in questa intervista che sembrerebbe avere poco a che fare con la scienza, cioè il ruolo sostenuto dai mezzi di comunicazione nell’influenzare atti devianti. Oggi è sempre più chiaro che la comunicazione distorta di un singolo stato può creare distorsioni a livello mondiale ed importanti conseguenze alla salute pubblica e all’economia globale. Per imparare dal passato, il sociologo non può soffermarsi soltanto sull’esperienza e sulla trasformazione di essa (Benjamin), oppure sulla memoria (Halbwachs), ma deve necessariamente ricordare la rapidità del “mutamento sociale” nel mondo attuale e l’assoluta e tempestiva necessità di adeguamento per far fronte ad esso.

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