Nessuna condivisione in assenza di densità relazionale


Nessuna condivisione in assenza di

densità relazionale

 

           Comunicazione e Condivisione sostanziano da soli la nostra società, in mille forme e in ogni ambito così che frequentemente sono dati per acquisiti anche quando non lo sono affatto. È per questo che gli specialisti della relazione d’aiuto e dunque anche i counselor si formano per rivolgere la massima attenzione a saper ri-conoscere e agevolare la comunicazione efficace e la condivisione autentica nella consapevolezza che l’una e l’altra si realizzano solo se accuratamente conosciute, apprezzate e nutrite da profondo rispetto di sé e dell’altro.

 

Ciascuno di noi ha esperienza di quanto sia difficile intendersi con l’altro,  annovera  ripetuti insuccessi più o meno condizionanti e deludenti nelle relazioni interpersonali, e forse proprio per questo ci si è progressivamente, quasi con zelo, autoeducati ad esibire con orgoglio il folto numero di amici, di gruppi di discussione, intese e condivisioni virtuali come se fossero amicizie reali le cui condivisioni –like e varietà di emoticon- sottintendano identità di vedute e valori.

Il lato positivo è che dal momento che abbiamo accettato di considerare amico a tutti gli effetti anche chi, pur non conoscendoci, ci concede un suo clic di apprezzamento, raramente ci si lamenta di non riuscire a trovare il “vero” amico. Quel clic certamente è apprezzamento per quanto abbiamo comunicato –non raramente idee e opinioni di altri, già note e di rilievo- , ma nulla di più: non è, né può essere, apprezzamento di ciò che pensiamo, del nostro comportamento, dei nostri principi guida, ecc. che da un amico e da una relazione di amicizia reale ci si attende.

È questo il mondo di superficie, creazione dell’uomo di superficie (Vittorino Andreoli, 2012) che è altro dall’uomo o donna superficiale in passato sempre esistito; oggi è uomo che non scende al disotto della superficie non più per scelta (inconsapevole o di convenienza) ma in quanto è incapace di percepire e concepire che esista una profondità, un diverso livello da esperire oltre la superficie, oltre ciò che vede o che …appare. Ci auguriamo che si possa intraprendere una strategia per recuperare l’umana capacità di intelligere, di leggere dentro la realtà e, per agevolare questo processo occorre che osserviamo come e quanto questo mondo ci abbia impoverito e continui a farlo, come e quanto renda instabile e mutevole, liquida (Zigmunt Bauman, 2011) ogni relazione interpersonale.

Le nostre quotidiane relazioni interpersonali (escludendo in questo primo passaggio quelle con i familiari), dalle più importanti a quelle di consuetudine, di lavoro, sono anche piacevoli talvolta, quasi sempre comunque contenute entro limiti diplomatici e di garbato galateo, ma restano inequivocabilmente epidermiche, così estranee a noi e al nostro sentire da lasciarci insoddisfatti e soli, nonostante i sorrisi, gli intercalari gradevoli e i propositi di rivedersi.

Accade così che, non di rado, di fronte a un’insistita gentilezza dell’altro, alla proposta di favori non richiesti per cui potremmo sentirci apprezzati e accolti, avvertiamo invece una spiacevole reazione di diffidenza come per una larvata e nascosta invadenza, anche se siamo convinti di essere in realtà inclini all’accettazione dell’altro. Le pregresse esperienze ci hanno educato a considerare che la nostra fiducia si rivela presto essere quasi sempre mal risposta e dunque è un’imperdonabile ingenuità. La nostra diffidenza si accresce poi quando il nostro interlocutore mostra un’entusiastica ed elogiativa attenzione per i nostri interessi, appena accennati e di cui non ha alcuna conoscenza, o quando fa sfoggio di conoscere quanto noi e forse più di noi i problemi connessi al nostro campo di attività (che non è affatto il suo), o quando immediatamente dichiara di condividere qualunque progetto non appena cliene diamo un accenno.

Perché questi atteggiamenti (e molti molti altri affini) non sono intesi da noi come meravigliosa eccellente disponibilità e sintonia di intenti?

Siamo chiamati a lottare contro questa persistente diffidenza nelle relazioni e transazioni della vita quotidiana o la nostra diffidenza è il necessario baluardo per difenderci dall’invadente gratuita e immotivata pressione altrui?

Il dato di fatto, suffragato da ripetute esperienze, è che le diverse e persino sofisticate forme di attenzione dell’interlocutore nei nostri confronti prima o poi si rivelano strumento per ottenere un tornaconto nascosto, proprio come accade (consapevolmente o meno) nei giochi psicologici (Eric Berne, ’82). Il mondo mediatico che carpisce la nostra volontà con mezzi suadenti e dal quale, nei rari momenti di lucidità riusciamo a distanziarci, ha letteralmente invaso ogni relazione umana e ogni ambito così che avvertiamo impellente la necessità di proteggercene, o (e sono i più numerosi) ricorriamo alle arti di convincimento per ottenere i nostri obiettivi, per estorcere il consenso altrui e ci industriamo a creare e presentare immagini accattivanti, a curare l’apparenza riducendo la distanza che la separa dalla realtà ad un sottilissimo diaframma. Esperti di marketing, dunque? No! Piuttosto affascinati dal potere del marketing (di cui forse sono essi stessi vittime) e in quanto inesperti di regole e complessità della comunicazione, pronti a credere che sia operazione semplice convincere (precisamente, secondo loro, abbindolare) l’altro usando qualche tecnica appena orecchiata.

Ciò che sarebbe bene ci lasciasse sgomenti è che alle leggi del marketing abbiamo finito per assoggettare ogni minuscola azione della nostra vita; il marketing non è più riferito a imprese produttrici di beni di largo consumo, al complesso dei metodi atti a collocare con il massimo profitto i prodotti in un dato mercato attraverso la scelta e la pianificazione delle politiche più opportune di prodotto, di prezzo, di distribuzione, di comunicazione, dopo aver individuato, attraverso analisi di mercato, i bisogni dei consumatori attuali e potenziali.

(http://www.treccani.it/).

Oggi la realtà è permeata dalla cultura del marketing: Marketing relazionale e comunicazione per la qualità e la visibilità dell'Università, Marketing territoriale e turistico in rete, Marketing per diffondere le peculiarità di un Liceo e di un Istituto d’Istruzione Superiore allo scopo di ottenere un maggior numero di iscritti, Marketing culturale per orientare i cittadini verso determinate scelte di programmi di teatro, Marketing per rendere visibile, più di altri, libri appena pubblicati, ecc…naturalmente mai a costo zero, anzi a costo più elevato risponde migliore efficacia e massimo raggiungimento dell’obiettivo. Se sempre più numerose sono le operazioni affidate ai professionisti del marketing, molto più numerose sono le spesso incerte e scoordinate operazioni di privati cittadini che credono così di edulcorare morbidamente ciò che è la loro unica filosofia di vita: do ut des.

È questo, dunque,  che allerta la nostra diffidenza, il percepire che l’attenzione e le entusiastiche frasi elogiative e le condivisioni del nostro interlocutore sono finalizzate ad un …baratto che certamente non sarà a noi favorevole. Percepiamo con chiarezza la falsità di un comportamento all’insegna di un ottimismo senza cedimenti che occulta ogni difficoltà, le proprie e quelle del progetto o dell’iniziativa che ci viene proposta, ne percepiamo la sostanziale irrealtà.

In definitiva, è evidente e va riconosciuto che questi maldestri tentativi di usare abilità di marketing, in quanto decifrabili con immediatezza risultano ininfluenti nella loro ingenuità, ma, è pungente l’amarezza con cui ci appesantiscono l’anima, ci turba profondamente la sensazione spiacevole di essere oggetto di tentato raggiro, di essere agli occhi del nostro interlocutore persona incapace di cogliere la realtà, dunque non stimabile. Ci sentiamo immeritatamente sottovalutati in particolare nelle nostre capacità e abilità di ri-conoscere un moto sincero da una sincerità affettata ed è questo che ingigantisce a dismisura la nostra solitudine: il nostro interlocutore si è rivolto con la evidente convinzione di modellarci a suo piacimento, del tutto incurante che tra noi nessuna densità relazionale fosse data, né ora, né prima.

Di che cosa si sostanzia la densità relazionale? Certamente di dia-logo e dunque di linguaggio, frasi, parole che tuttavia inevitabilmente si legano all’insieme complesso di sensazioni, emozioni e immagini delle esperienze che le accompagnano, diverse per ciascuno di noi. L’apprendimento non è, lo sappiamo, evento puramente cognitivo, bensì cognitivo ed emotivo, emozionale: Il bambino mentre apprende il linguaggio, non introietta soltanto la parola bicchiere arricchendo il suo “vocabolario”, ma lega ad essa un insieme, come ad esempio il desiderio di afferrare l’oggetto, il volto della madre, la sua voce il senso di frustrazione, il suo protendersi, le tensioni corporee, gli odori, il piacere del contatto con l’oggetto, ecc. (Vigotskij, 1934).

Se la parola, nella relazione interpersonale, è l’attrattore in primis, è essa stessa  forma di un «complesso» inestricabile di esperienze emotive, di identità, di non-detto che ogni interlocutore vive in forme assolutamente individuali e diverse da ogni altro. È di questo complesso inestricabile visibile/decifrabile in piccola misura, come la punta dell’iceberg che si sostanzia la densità relazionale: nella prospettiva secondo cui l’aspetto cognitivo-verbale non può scindersi da quello sensoriale, corporeo ed immaginativo, il nostro parlare, con i nostri silenzi, pause, ripresa del discorso, variazioni di tono, volume ecc… si fa narrazione che può, nel tempo, nella maggiore reciproca conoscenza, allinearsi ad un ritmo dialogico di relazione con l’altro. Nei nostri silenzi talvolta, più che dal nostro parlare, emergono dallo sfondo le nostre intuizioni, le nostre emozioni e sensazioni che non hanno parole che possano descriverle (quante volte abbiamo vissuto la delusione che tentando, attraverso il linguaggio, di descrivere certi stati d’animo, qualcosa si perdeva inevitabilmente) e se il nostro interlocutore è capace di autentico ascolto solo allora la distanza che rende la relazione epidermica e insignificante, si assottiglierà, aprendo il percorso di un rapporto dialogico, nutrendo la densità relazionale.

Quando nella relazione interpersonale riusciamo a toccare questi momenti, percepiamo una densità diversa e l’atmosfera nel campo relazionale cambia completamente: il tempo rallenta e lo spazio si dilata. È la sensibilità di entrambi e l’insieme delle competenze relazionali che permettono di dar vita alla più profonda empatia condivisa. Lo sfondo del singolo può divenire una comune base trasmissibile, dando origine ad un sentimento di apertura e fiducia assoluti. È l’armonia tra la struttura dinamica del sé metabolico e quello sincronico a creare questa forma evidenziata dall’oscillazione emotiva del sé e da come il dominio della confluenza può tradursi in parole e linguaggio. La gestalt è l’approccio più diretto per realizzare questa realtà, quando appunto, discostandosi dalla condizione egualitaria o simmetrica rogersiana, si fa dialogica spostando il suo orizzonte dall’intenzionalità del «tra» a quello dell’«oltre», ovvero verso un punto archimedico che trascende entrambi gli interlocutori (dia-logo). Se l’altro non diviene Altro, nessuno potrà superare se stesso poiché senza un terzo assoluto che possa offrirsi come misura, inevitabilmente uno dei due interlocutori assumerà la funzione di misura, traducendo il discorso in termini di plagio.

 [Per saperne di più: https://www.stateofmind.it/2017/02/strutture-dinamiche-relazionali-gestalt/]

           La densità relazionale è nucleo fondante di ogni intesa che possa assumere un significato valoriale; è la densità relazionale che nutre il dia-logo e la condivisione, che segna la profondità, le modalità e i limiti di atteggiamenti e comportamenti, di minime o sostanziali libertà che reciprocamente i soggetti coinvolti possono darsi. E quando manca questa densità relazionale, che è insieme emozionale e razionale, dell’oggi e nutrita da una familiarità acquisita nel tempo, il nostro interlocutore, come risucchiato e chiuso nel gioco del do ut des, nella ben misera prova di sé, si espone, spesso del tutto improvvidamente al rischio di perdere il contatto con il suo interlocutore, che, deluso e ferito si allontana quasi sempre in modo definitivo.

Nel ruolo di interlocutori, ci allontaniamo discretamente e senza entrare in dettagli, solo cercando, con uno scatto di determinazione, la formula di un saluto breve perché possa da solo bastare a mettere un punto definitivo a quella che vuole apparire, ma non è, relazione interpersonale. Per ore, talvolta per giorni si affastellano in noi e ci inquietano le tante obiezioni che avremmo potuto muovere a quell’improvvisato “promoter”; ci chiediamo come abbia potuto ignorarei codici della comunicazione, l’importanza ineludibile dell’ascolto, attivo, passivo, profondo mascherando di gentilezza una autentica manipolazione, ignorare la lettura della situazione, la lettura del nostro verbale (oltre che del nostro silenzio) e del Non Verbale, le informazioni che nel dialogo gli abbiamo inviato, il significato del rispetto di sé e, conseguentemente,  del suo interlocutore (cioè noi), il rispetto dei ruoli, le diversità tra noi che avrebbero potuto arricchire il dialogo. In breve tempo comprendiamo che il nostro interlocutore può essere vittima dei propri stessi limiti che non intende accettare, mantenendosi fedele acriticamente ai suoi saldi pregiudizi, anche su di noi,  alle convinzioni potenzianti su di sé e limitanti nei nostri confronti (come, probabilmente d’abitudine, per ogni interlocutore), propenso a  generalizzazioni, luoghi comuni (difficili da verificare e spesso fallimentari) e lo rivediamo mentalmente in azione nelle diverse forme di insistenza che ha messo in atto per convincerci della bontà della sua proposta (a volte della semplice promozione di sé e delle sue scelte che pone ad un livello superiore alle  nostre), nella certezza che l’insistenza protratta, indebolisce le resistenze dell’altro progressivamente fino ad azzerarle e dunque è strategia vincente che assicura il raggiungimento dell’obiettivo (il suo tornaconto, che mantiene celato). Ci tornano alla mente le sue telefonate, in ore che solo ad una affettuosa e disinteressata familiarità sono concesse, gli sms, improntati ad una giocosa intesa fittizia, inesistente, le mail con inviti improvvisati per un aperitivo durante i quali, in posizione up, ha ininterrottamente parlato di sé e da primo attore si è prodotto con domande strumentali sul nostro lavoro e le nostre occupazioni per carpirne ulteriori motivazioni di legarsi a noi e guadagnarsi la nostra fiducia.  

Da questo faticoso ripercorrere il recente vissuto, cogliamo un sicuro elemento di positività: la conferma che la relazione interpersonale, sempre complessa, non può prescindere dall’ascolto, dall’attenzione al linguaggio e persino all’uso delle metafore del nostro interlocutore, né dalla lettura profonda dell’interlocutore, di noi e delle nostra emotività nella relazione e del contesto in cui stiamo operando. La relazione interpersonale è verifica della nostra crescita personale e ancor più della ricerca di sé che ciascuno di noi può riaccendere ogni giorno. Il compito più complesso e inderogabile di ogni educatore, di ogni professionista della relazione d’aiuto è agevolare l’educazione di ciascuno alla ricerca e all’ascolto di sé come obiettivo in continuo divenire e in fieri e modello di nutrimento vitale per le nuove generazioni.

Cordialissimamente,

Giancarla  Mandozzi

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