Abbiamo perso o solo smarrito il vero gioco?


Abbiamo perso o solo smarrito il vero gioco?

 

            Di giochi ne conosciamo e ne pratichiamo tanti, al punto che dal gioco appunto abbiamo scoperto un'ennesima forma di dipendenza, mentre la richiesta aumenta in ragione di un'offerta ogni giorno più affinata e attraente. Giocano gli adulti, i giovani e gli adolescenti, spesso senza riuscire a difendersi dall' eccessivo condizionamento di giochi virtuali e scommesse di ogni tipo.

            Eppure è accaduto, in modo silente, mascherato da  segnale di progresso, mimetizzato dalle insegne di libertà e di uguaglianza, il vero gioco, quello autentico, quello che è espressione dell'umano pensare-agire-gioire-temere-esultare  e  induce a mettersi in gioco, è introvabile.

Non ne siamo del tutto consapevoli e dunque non ci chiediamo neppure il perché, né come né il quando sia accaduto, tantomeno il chi ha potuto orchestrare un simile mega effetto.

            In fondo, oggi sembra che anche per noi adulti, sia disponibilissiam ogni forma di gioco. Siamo diventati così attenti a mantenere il nostro Bene-essere fisico ed emozionale, che avvertiamo l'assoluta necessità di ritagliarci tempo libero per noi, per seguire e praticare le attività che ci piacciono.  Abbiamo ri-valutato il divertimento e, se per gli adulti delle generazioni trascorse divertirsi era eticamente riprovevole e quindi esperienza rara e compressa da divieti e tabù di ogni sorta, oggi viviamo il divertimento come una legittima necessità per diminuire lo stress di una vita convulsa e, piuttosto, siamo determinati a confinare entro ristretti limiti il lavoro in modo che non ci sovrasti, né si insinui nella nostra mente quando vogliamo dedicarci agli affetti, persino al dolce far niente.

            L'equivoco in cui moltissimi tra noi sono caduti è proprio questo: considerare il divertimento sinonimo di gioco, ma il gioco, autenticamente, è ben altro e così definito dal dizionario: Qualsiasi attività liberamente scelta a cui si dedichino, singolarmente o in gruppo, bambini o adulti senza altri fini immediati che la ricreazione e lo svago, sviluppando ed esercitando nello stesso tempo capacità fisiche, manuali e intellettive.

 [http://www.treccani.it/vocabolario]

            Anche se già in questa definizione, molti segnali potrebbero aiutarci a sollevare dei dubbi su quella rapida e imprecisa transazione tra divertimento e gioco (gioco sia quello dei bambini, sia quello degli adulti, accompagnato da coinvolgimento totale della propria persona...), come possiamo ignorare ad esempio i giochi psicologici? Come non riflettere sul fatto che ciò che ci piace, o ciò che al contrario vogliamo evitare, è il frutto di un copione di vita nel quale si annidano potenti e influenti giochi psicologici che non vediamo? Eric Berne ci ha ben ragguagliato su questo e certamente ci ha indotto a qualche riflessione su noi stessi, persino imbarazzante.

            Nuccio Salis [https://www.counselingitalia.it/] si chiede quale sia il tratto che rende il gioco dell'adulto distinto e non sovrapponibile al gioco del bambino e propone: Forse consiste nel fatto che l’adulto finisce per identificarsi in modo adesivo nel proprio ruolo, ovvero degenera nel prendersi troppo sul serio, e quindi, proprio al contrario del bambino che invece smette di giocare, consapevole dell’artificiosità del gioco imitativo, l’adulto continua la sua attività sostituendola via via alla realtà, ed imperniando la sua intera esistenza intorno alle proprie proiezioni costruenti attività virtuali.

Il bambino esce dal matrix, l’adulto ne rimane intrappolato: è questa l’unica differenza che mi riesce di cogliere.[...] Anche gli adulti giocano, ed i giochi di cui sono appassionati sono spesso forme di relazione dalla struttura e dai processi patologici, in quanto sfocianti in situazioni in cui tutto si complica e diventa ingestibile e ripetitivo, generando eventi da cui si ricavano soltanto turbamenti, dolore, disprezzo per se e per gli altri.

            Dunque, anche quando crediamo di scegliere un'attività solo perché ci piace potremmo invece inconsapevolmente interpretare un  ruolo per un fine che con il gioco ha scarsa relazione.

            A proposito del gioco, godiamoci qualche spunto di filosofi e sociologi, pedagogisti e conoscitori della psiche.

            Le citazioni che seguono sono di Claudia Mazzola, cfr. http://rivista.ssef.it [https://www.counselingitalia.it/articoli/1524-si-puo-prendere-sul-serio-il-gioco]:

«Huizinga (Homo ludens 1973) e Caillois (I giochi e gli uomini 1981).

Per Johan Huizinga "ogni gioco è anzitutto e soprattutto un atto libero. Il gioco comandato non è più gioco.

Gioco non è la vita 'ordinaria' o 'vera', è un allontanarsi da quella per entrare in una sfera temporanea di attività con finalità tutta propria, già il bambino sa perfettamente di 'fare solo per finta', di 'fare solo per scherzo".

Ancora: "Il gioco è qualche cosa di disinteressato, è un intermezzo della vita quotidiana, una ricreazione".

E poi: "il gioco si isola dalla vita ordinaria in luogo e durata; (…) il gioco comincia e ad un certo momento è finito".

Infine "Ogni gioco ha le sue regole. (…) Il giocatore che si oppone alle regole o vi si sottrae è un guastafeste. Il guastafeste è tutt'altra cosa che il baro: quest'ultimo finge di giocare il gioco".

Ne I giochi e gli uomini Caillois aggiunge che il gioco è un'attività "incerta: il cui svolgimento non può essere determinato né il risultato acquisito preliminarmente”. E alla modalità della competizione, già introdotta da Huizinga, aggiunge l'azzardo, la maschera e la vertigine. Questa potenza creatrice del gioco, fa del gioco il gesto dissacrante dello spirito libero.

Nietzsche, nell’aforisma 382 de La gaia scienza, scrive:

 “Un altro ideale ci precede correndo, un prodigioso ideale, tentatore, ricco di pericoli, al quale non vorremmo convincere nessuno poiché non è così facile riconoscere a qualcuno il diritto ad esso: l’ideale di uno spirito che ingenuamente , cioè suo malgrado e per esuberante pienezza e possanza giuoca con tutto quanto fino a oggi fu detto sacro, buono, intangibile, divino”.

Giocare significa mettere in gioco, in discussione la costruzione assiologica entro la quale ci muoviamo.

Chi gioca? Non il soggetto, ma il giocatore, che nel panorama nietzscheano è colui che si incammina lungo il sentiero che conduce alla trasmutazione dei valori, colui che non teme di fornire il proprio contributo perché questa rivoluzione si compia.

Il gioco rappresenta la modalità idonea per portare a termine questo cambiamento, non in quanto metafora del mondo, ma in quanto esso stesso ritmo, movimento della struttura del mondo, perché il gioco, scrive Nietzsche, privilegia l’inutilità e la transitorietà, è l’ideale da contrapporre a quanti interpretano l’esistenza secondo schemi razionali e finalistici.

Il gioco, senza correre il rischio di sostanzializzarsi, è esattamente la modalità in cui il mondo si dà all’uomo, perché il mondo è gioco e l’uomo è dentro questo gioco, appartiene al gioco.

Il gioco spaventa, perché nel gioco c’è un solo vincitore, tutti gli altri perdono, per loro la rivincita della morale cristiana in un al di là che non rende immuni, ma consola, dalle sconfitte della vita mondana. Eppure non è possibile sottrarsi al gioco, nessuno può alzarsi dal tavolo verde e restare a guardare, perché il gioco costitutivamente è presente nell’uomo come nel mondo. E l’eroe pre-tragico, pre-socratico, sapeva giocare.

Dioniso maestro di gioco, impavido, accetta la carta che neanche pesca ma gli viene distribuita, e interprete genuino dell’amor fati perduto la fa propria. L’uomo odierno ha smarrito l’attitudine al gioco, in una sorta di epoché ha smarrito quell’intenzionalità che lo rendeva istintivamente giocatore per paura di perdere. “Quanta verità può sopportare un uomo? Quanta verità può osare un uomo?” Si chiede Nietzsche.

In questo caso nel gioco si rintracciano quelle idee di libertà, di innocenza, di casualità proprie, secondo Nietzsche, del divenire del mondo.

La consapevolezza del gioco come “attività” priva di un fine che lo motivi o lo giustifichi, in realtà è proprio ciò che permette all’uomo di fissare scopi e obiettivi della propria vita, di continuare a creare valori, o più precisamente di ri-creare nuovi valori che nascono dalla riscoperta co-appartenenza dell’uomo al mondo, pur avendo coscienza del loro non essere necessitati da un fine esterno e trascendente rispetto ad essa, avendo coscienza del fatto che essi non sono né potranno mai essere definitivi, perché la volontà di potenza che la vita è porta l’uomo ad un continuo movimento di autotrascendimento.»

             È evidente che dagli ambienti della psicologia, della psicoanalisi, della ricerca storica, degli studi naturalistici, della sociologia traiamo una collezione di diverse definizioni di gioco che si pone comunque sempre in posizione ben distanziata dal divertimento, soprattutto se, come accade assai frequentemente oggi, ogni tassello del così detto tempo libero è eteroguidato da persuasori sapienti e neppure più tanto ...occulti, mentre il gioco non può che essere liberamente scelto.

            Quando dovesse accadere che, convinti di aver intrapreso un gioco, ci sentiamo svogliati, non siamo per nulla interessati ad apprenderne le regole, ci preoccupiamo del possibile fallimento nei confronti di altri giocatori, o, qualora stiamo per perdere, sentiamo un forte impulso ad abbandonare tutto, quando proviamo repulsione ad apprendere da chi è più esperto di noi, o negli altri giocatori vediamo solo e soltanto avversari, o il gioco che stiamo seguendo non si lega in alcun modo alla nostra vita e alle nostre scelte, o se ci accade che continuamente ci distraiamo ...soffermiamoci a riflettere: il vero gioco è altrove, in un impegno proficuo, in un autentico sostegno alla nostra individualità, anche con il concorso del gruppo.

 

Cordialissimamente,

Giancarla Mandozzi

 

 

 

 

 

 

 

 

 

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