dire "grazie" è sentirsi liberi


dire "grazie" è sentirsi liberi

            Per il tempo che l'altro ci ha regalato, per una stretta di mano,  per uno sguardo benevolo, per il silenzio partecipe con cui siamo stati ascoltati, per un sorriso, per piccole deliziose istantanee manifestazioni di lealtà nella vita di ogni giorno avvertire in noi salire alle labbra la gratitudine e dire "grazie" , è meravigliosa sensazione di libertà, la libertà di riconoscere l'altro, di saperne apprezzare gesti positivi, di ammirarli senza sentirci affatto sminuiti, anzi potenziati nella famiglia del genere umano, è libertà di riconoscere che il senso profondo della vita è l'apprezzare  ciò che ci è dato.

 

Eppure dire "grazie" con naturalezza e semplicità, soltanto per esprimere la gratitudine che autenticamente il nostro animo prova, è una condizione rara, a qualsiasi età.  Da adulti, con una convinzione che ci accompagna fin da quando eravamo bimbi, difendiamo il nostro atteggiamento un po' ruvido, poco propenso a mostrarci grati, con una sottile quanto frequente operazione razionale che attribuisce alla gratitudine un valore esattamente proporzionale a quanto ci è stato donato; un quanto misurato con il metro di giudizio del mondo esterno, piuttosto che in relazione a ciò che il nostro animo veramente desidera. Secondo questa linea di principio, è inevitabile che raramente qualcuno o il caso o la provvidenza ci faranno dono di qualcosa di così importante che meriti la nostra gratitudine e, così, per semplici "gentili accortezze" ricevute non è il caso di sentirsi grati con chicchessia.     D'altro canto, è impensabile che si possa provare  gratitudine per comando imposto da altri o perché noi stessi ce lo imponiamo come dovere, come per ogni sentimento, per ogni emozione.

Provare gratitudine è piuttosto segno di una lenta e progressiva crescita in educazione e autoeducazione che ci accompagnano e ci rendono ad ogni passo, per ogni scambio e relazione con l'altro, con la vita, desiderosi di mostrarci grati, anche per piccolissimi dettagli.

È invece, più facile che di fronte ad un sorriso inaspettato -per altro evento rarissimo- oggi ci insospettiamo. Dove sono finiti quegli ammonimenti-moniti, quegli inviti che da sempre ricordiamo di aver ricevuto dai genitori, dai nonni, da tutti gli adulti: "Ringrazia! Perché non dici grazie? Come si dice al bimbo che ti ha dato la caramella? .... e l'immancabile simmetrico "obbligo" a chiedere "Per favore" che doveva precedere o al massimo seguire ogni richiesta, a testimonianza che ogni risposta affermativa a ciò che chiedevamo era comunque cosa non affatto scontata, bensì graziosamente concessa e quindi  meritava gratitudine?

Forse proprio in  quella graziosa concessione si annida il progressivo nostro re-agire a quegli inviti premurosi, compresi quelli che ci obbligavano (e questa volta con un nemmeno tanto vago sentore di rimprovero) a salutare chiunque si incontrava e che per noi, era quasi sempre una persona sconosciuta che non la smetteva mai di farci domande. Ah come odiavamo quelle domande! Ci costringevano a dare risposte a ciò che per noi non aveva nessun interesse e ci rubavano momenti preziosi in cui potevamo camminare dando la mano a mamma, a papà che una volta tanto stavano con noi sereni e sorridenti.

            Quando dunque da adulti rifiutiamo di dire grazie, accade che prepotente riaffiora e prevale il desiderio di affermare il nostro diniego di fronte ad una antica imposizione, e ingaggiamo ancora la lotta con quell'immagine di un genitore che sentiamo, nonostante le sue nobili intenzioni, persecutore, parola di A.T.

E la nostra autonomia, il nostro personale modello di relazione con noi stessi e con gli altri? Ma davvero vogliamo permettere che per una vita intera ciò che veramente potremmo desiderare sia annientato da quel copione che Eric Berne definisce inconsapevole,  «un piano di vita che si basa su di una decisione presa durante l'infanzia, rinforzata dai genitori, giustificata dagli avvenimenti successivi...» ?

            È ben evidente che anche nell'educare, nell'impartire educazione esiste un limite, sottile e talvolta non facilmente individuabile e tuttavia da cercare con umiltà e competenza da parte dell'educatore e da rispettare in quanto oltrepassarlo avrà effetti esattamente opposti a quelli che un educatore si propone di suscitare con la sua opera. Decenni orsono nell'educazione che si impartiva prevaleva il principio di autorevolezza, quando non addirittura quello di autorità, l'educatore  riteneva fosse suo compito ammonire e, se necessario, incutere timore nell'educando per indurlo all'obbedienza, per realizzare di lui, piccolo uomo, o di lei, piccola donna, un preciso modello di adulto. Da qualche tempo, conosciamo un tipo di educazione assai diversa, improntata non più all'autorevolezza e neppure, in moltissimi diffusi casi, al rispetto delle norme, conosciamo adulti soggiogati dai bambini che -senza averne consapevolezza-  finiscono per diventare piccoli tiranni a cui neppure le buone maniere vengono richieste, visto che non sono disposti ad accettarle. Due modalità educative opposte, entrambe improntate ad indiscutibili valori pedagogici, ma gli operatori, nell'un caso e nell'altro, seguendo strade opposte, hanno comunque superato quel limite a cui facevo riferimento, instaurando di fatto attività educative in eccesso: la prima impositiva, la seconda permissiva. Né l'una né l'altra promettono efficacia.

            Se, con il passare degli anni, ciascuno di noi potesse liberarsi dagli effetti impropri  dell'educazione ricevuta o della mancata educazione, potrebbe sentire finalmente quale energia liberatrice è quella che ci induce a dire grazie anche per un nonnulla, come riconoscimento dell'altro, come testimonianza del rispetto che noi nutriamo per noi stessi e per ciascuna persona con cui ci relazioniamo, per la gratitudine che ci rincuora per congiunture fortunate e positive, per la provvidenza, per la mano benevola di chi neppure ci è dato vedere.

 

Cordialissimamente,

Giancarla Mandozzi

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