COUNSELING, UNA PROFESSIONE DUE VOLTE NECESSARIA

Inviato da Liana Gerbi


di Luigi De Marchi, (1937-2010) psicologo clinico e sociale, politologo e autore di numerosi saggi pubblicati in Europa e in America (vedi nota in fondo).
Il Counseling nasce negli Stati Uniti nel corso degli anni ’30 per assicurare, come asserisce Rollo May (uno dei Padri della Psicologia Umanistica), “riconoscimento professionale a tutti coloro che, pur non avendo, né volendo il titolo accademico di psicologo o psicoterapeuta, svolgono o intendono svolgere un’attività che esige una buona conoscenza della personalità
umana”.
Carl Rogers, (altro padre fondatore della Psicologia Umanistica) nella sua “Psicoterapia di consultazione”, la prima opera sistematica sulla professione di Counselor pubblicata negli StatiUniti nel 1942, scrive:


“Ci sono molte persone la cui professione consiste soprattutto nell’avere colloqui con chi a loro si rivolge per determinare, mediante contatti personali, modificazioni costruttive del proprio atteggiamento e comportamento. Si chiamino essi psicologi, consulenti psicologici scolastici o aziendali o matrimoniali, assistenti sociali, psichiatri od altro, qui ci interessano solo se, dopo i
colloqui con loro, l’eterno indeciso, la coppia in crisi, il fallito, il disadattato o il delinquente trovano meno difficile affrontare in modo costruttivo i loro problemi e la realtà della vita.

 


A questi colloqui possiamo dare nomi diversi. Possiamo chiamarli, con espressione semplice e descrittiva, colloqui terapeutici: più spesso, però, vengono definiti globalmente counseling.
Oppure questi colloqui, intesi a proporre rimedi e cure, possono essere chiamati psicoterapia.
In quest’opera, i vari termini saranno utilizzati più o meno indifferentemente, poiché sembrano riferirsi allo stesso metodo fondamentale: una serie di colloqui personali, finalizzati ad aiutare la persona assistita a modificare positivamente i suoi atteggiamenti e comportamenti.
Si è notata la tendenza ad usare l’espressione “counseling” per i colloqui più superficiali e meno continuativi ed a riservare il termine psicoterapia per i colloqui approfonditi e prolungati, volti ad una riorganizzazione più radicale della personalità. Ma sebbene questa differenziazione possa avere una sua validità, è ugualmente chiaro che il counseling più intenso ed efficace non è distinguibile da una psicoterapia altrettanto intensa ed efficace”
Ho citato abbastanza ampiamente l’introduzione all’opera fondante e fondamentale di Rogers perché le sue affermazioni contrastano in modo stridente con quelle del recente manuale di una scuola italiana di counseling che recita testualmente:


“Il Counselor non fa terapia, non presta cure di nessun genere, non fa psicoterapia, non fa consulenza, non insegna psicologia e genericamente non usa mai il prefisso psico […]

Va evidenziato in particolare che il counseling psicologico è un’attività di esclusiva competenza del ruolo professionale dello psicologo”.

E più avanti: “La personale competenza culturale (leggi laurea) o competenza professionale (leggi medico o psicologo) esulano totalmente dalla qualifica di competenza del counselor”.


Dietro a questo deprimente contrasto tra la realtà storica e professionale del counseling e la sua arzigogolata e oscura definizione italiana sta la nostra assurda e corporativa legislazione in materia di psicoterapia che, in contrasto con quanto accade negli Stati Uniti e nella maggior parte dei paesi dell’Occidente avanzato, ha preteso di escludere dalla psicoterapia chiunque non sia laureato in medicina o in psicologia.

E’ una legislazione che, come tutti sappiamo, ha voluto statalizzare una formazione professionale, quella dello psicoterapeuta, nata e cresciuta negli studi dei liberi professionisti (quali furono, salvo rare eccezioni, tutti i grandi maestri della psicoterapia) e nell’ambito di scuole private e libere e che, per soddisfare gli appetiti di baronie accademiche tanto avide quanto incompetenti, ha validato solo i diplomi delle scuole di formazione approvate dalle baronie stesse, facendo quintuplicare i costi della formazione e consegnando l’Ordine degli Psicologi e degli Psicoterapisti, composto per 4/5 di liberi professionisti, ad esponenti della burocrazia sanitaria ed accademica.
Questa legislazione, come pure è noto, è da tempo severamente criticata in sede europea.

Nel Congresso Europeo di Psicoterapia svoltosi nel 1998 a Parigi, i rappresentanti della professione psicoterapeutica di 36 paesi europei hanno denunciato la nostra legislazione statalista definendola una violazione del diritto umano alla scelta del metodo terapeutico e, con una marcia solenne alla Piazza del Trocadero, hanno ribadito la Dichiarazione di Strasburgo che
definisce la psicoterapia “una professione libera e indipendente” da non riservare solo a medici e psicologi.


Ma, al di là dei problemi di libertà personale e di indipendenza professionale così grossolanamente violati dall’attuale legge italiana in questo campo, c’è un problema basilare di contenuti e di efficacia che l’odierna legislazione italiana in materia psicoterapeutica, e gli orientamenti ad essa ispirati in tema di counseling, sembrano ignorare totalmente, con grave danno dell’utenza. Ed è il problema della qualità umana del professionista che svolge queste delicatissime attività.


La nostra legislazione, conforme ai criteri nozionistici e burocratici che ispirano tutto il nostro insegnamento universitario e che ci hanno assicurato il poco invidiabile primato europeo della fuga degli studenti dagli atenei e dei cervelli dai centri di ricerca, concede l’abilitazione a queste attività a chi abbia concluso un corso privo di qualsiasi contenuto umanistico e superato un’enorme quantità di esami teorici, spesso inutili ai fini professionali, senza alcun riguardo per la preparazione esperienziale e pratica e per le qualità attitudinali del candidato.
Purtroppo, i criteri che si sono affermati in varie Scuole italiane di counseling ricalcano le concezioni nozionistiche accademiche in fatto di consulenza psicologica in ogni campo: da quello clinico a quello aziendale a quello sportivo o scolastico.

Ma tutto ciò costituisce una flagrante negazione dei criteri che dovrebbero ispirare la formazione in queste attività.

Sono criteri che lo stesso Carl Rogers, della cui scuola in Italia sono stato co-fondatore e presidente per diversi anni, mi ha confidato in una conversazione personale di 25 anni fa:
“Vedi Luigi – egli mi disse – per parte mia io ho ammesso ai miei corsi di formazione e hodiplomato in psicoterapia centinaia e centinaia di persone che non avevano nessuna laurea,nessuna specializzazione e nessun altro titolo di studio universitario, ma avevano la qualità umana, la sensibilità, l’autenticità, la semplicità, il senso dei propri limiti, la capacità di comunicazione e attenzione empatica che sono la vera e unica base d’una psicoterapia e di un counseling efficaci”.
Beninteso capisco che, fin quando l’attuale legislazione statalista resterà in vigore in Italia, ogni formatore responsabile deve rendersi conto che con questa legislazione dobbiamo fare i conti e che, quindi, può essere oggi opportuno evitare scontri frontali con le norme vigenti proclamando che il counseling non ha niente da spartire con la psicoterapia.
Del resto, le parole stesse “psicoterapia” e “paziente” hanno un carattere medicale e patologizzante che ogni professionista maturo non ritiene applicabile alla maggior parte della sua clientela. E, da psicologo umanista che vede nella dinamica emozionale e nella sua bonifica il fulcro di tutto il proprio lavoro, credo che “counseling emozionale” potrebbe essere
un termine idoneo a definire la nuova professione.Ma queste considerazioni giuridiche o filosofiche non devono a mio parere indurre le Scuole di formazione in counseling ad avallare la confisca e la distorsione della formazione psicoterapeutica ad opera del nozionismo e del corporativismo baronale ed a ricalcare su quei concetti distorti la formazione del counselor.
Al contrario, chi prepara al counseling in Italia deve, a mio parere, considerare questa sua attività formativa doppiamente necessaria ed urgente nel nostro paese: sia perché si tratta di creare professionisti selezionati e formati secondo criteri non solo nozionistici ma anche e soprattutto attitudinali, sia perché si tratta di combattere e compensare la distorsione nozionistica e corporativa che l’egemonia baronale ha prodotto nel campo psicologico e                    psicoterapico.


Insomma, una formazione valida del counselor dev’essere coerente con le radici storiche di questa figura e consapevole delle responsabilità storiche, sociali, scientifiche e culturali che caratterizzano questa professione ingiustamente emarginata dalle burocrazie accademiche.
Col counseling si offre dunque alla comunità professionale e scientifica italiana una grande opportunità di restituire alla libera professione, che le aveva storicamente generate, la psicologia e la psicoterapia europee, liberando queste due discipline dalla
sclerotizzazione e burocratizzazione cui sono state condannate dalla casta accademica e dalla selezione a rovescio di stampo servilistico, conformistico, nepotistico (insomma,intellettualmente e moralmente mediocre) che questa casta si è voluta dare.


Luigi De Marchi (nato a Brescia il 17 luglio 1937 e morto a Roma il 25 Luglio 2010) è stato psicologo clinico e sociale, politologo e autore di numerosi saggi pubblicati in Europa e in America. Considerato il padre della psicosociologia italiana, è stato referente per l’Italia, fondatore e presidente di tre importanti scuole di psicoterapia: quella “Psico-corporea”, quella “Bioenergetica” e quella
“Umanistica” assieme a Carl Rogers. Nel 1986 fonda a Roma l’Istituto di “Psicologia Umanistica Esistenziale” che ha diretto fino all'ultimo giorno.

Potrebbero interessarti ...