PARLA CON ME. Perché raccontiamo la sofferenza

Inviato da Nuccio Salis

gente che comunica

Comunicare rimanda etimologicamente alla condivisione reciproca di un dono. È insita nel processo comunicativo, per propria natura, la dimensione dello scambio. L’esigenza di attivare le dinamiche comunicative fa parte di una delle più importanti aree appartenenti al soggetto umano. La tendenza ad entrare in rapporto è inscritta nel nostro naturale corredo specie-specifico, e nel corso della sua maturazione assume tipologie mediate dalle forme culturali dominanti. Sono infatti le determinanti socio-ambientali ad orientare le strutture e le funzioni dei modelli di interazione, favorendo l’interiorizzazione di quelli maggiormente diffusi ed accettati.

La comunicazione è un atto continuo, da cui non ci si può sottrarre dal momento che si incontra l’altro da sé. E questo accade perché i suoi meccanismi non sempre sono soggetti al controllo e all’intenzionalità di chi invia un messaggio, ma anzi molto più frequentemente sono esattamente sfuggenti, inconsci, ingestibili e soggetti a giudizi e preconcetti di valore da parte di ciascuno.

La comunicazione è la risorsa unica dalla quale è possibile promuovere e ricercare il contatto, far evolvere strutture di gruppi, e modificarne progressivamente regole interne, gerarchie e strutture, flussi comunicativi, ingressi ed uscite di nuovi membri, obiettivi e principi di fondazione ed esistenza di un gruppo stesso. La complessità di tali processi è possibile soltanto grazie al fatto che si comunica.

Sorge pertanto spontaneo, a fronte di questa straordinaria risorsa ed opportunità, sollecitare gli altri a parlare dei propri problemi, qualora si fosse a conoscenza del’esistenza degli stessi. Di fronte alle difficoltà personali di un amico, di un parente molto vicino o qualsivoglia persona con cui abbiamo stabilito un affine rapporto di significativa affettività, tendiamo spontaneamente ad invitare a parlare di ciò che in quel momento è causa di afflizione e tormento.

 

Questa operazione, si sa, potrebbe anzitutto ridurre il carico di increscioso dolore da parte di chi è avulso dai suoi patemi d’animo, soprattutto se si trova di fronte un interlocutore capace di ascoltarlo, accoglierlo, rispettare e comprendere il linguaggio del malessere che provoca turbamento, senza per questo averne paura o addirittura giudizio. Se questo avviene, la persona travagliata dal suo dolore sperimenta un senso di alleggerimento, specie se ciò che prova ha trovato un luogo “altro” dove temporaneamente co-abitare. Se poi il vissuto è stato pienamente rispecchiato e condiviso (sotto qualunque forma), ciò diventa un importante esperienza per lenire o rimarginare col tempo le ferite emotive, spesso ben più gravi e profonde di quelle puramente fisiche.

Insomma, poter  contare sulla famosa ‘spalla su cui piangere’, rappresenta un valido punto di forza e potenziale sostegno per quelle fasi in cui si stanno attraversando difficili ed ostici passaggi della propria vita. Benché questo espediente abbia fatto parte della storia del genere umano, ben prima che ne fosse intuita una possibile strategia clinica in sede di relazione di aiuto, la necessità di ‘professionalizzare’ tale intervento, si è potuta proporre e sviluppare nel tempo con la diffusione di certi approcci e discipline che l’hanno saputa indicare e far accettare come un possibile rimedio a cui poter fare riferimento.  Freud la chiamava ‘la cura parlante’, ed era (come lo è del resto tuttora) essenzialmente basata su un concetto terapeutico che fa leva sul potere catartico della parola.

Esprimersi per ‘buttare fuori’, mettere all’attenzione anche degli altri il proprio intimo dolore, potendo fare affidamento ad un contenitore sicuro e protetto, percepito e sperimentato come non lesivo di sé, raffigura una valida contromisura per mitigare tutto ciò che provoca angoscia e tensione.

La parola è ancora oggi l’antidoto per eccellenza. Il rapporto umano rimane ancora la risorsa principale per sciogliere le nostre corazze di paura e rigidità.

Raccontare di sé, peraltro, può non essere limitato al rimettere sull’altro il proprio problema, e quindi circoscritto ad una mera situazione di sfogo. Certo, questo aspetto è molto importante e può rappresentare un valido punto di partenza su cui sostanziare un’azione di aiuto ancora più efficace. In altre parole, è risaputo che la ricerca del sostegno, condotta attraverso la narrazione e la confessione, può mirare non soltanto al conforto, quanto anche al confronto.

In sintesi, grazie ad una presenza capace ed autorevole in tema di ascolto, non solo può essere possibile sentire vicinanza e contagioso incoraggiamento, ma anche verificare la possibilità di rivalutare se stessi e la propria visuale della situazione.

La necessità di parlare scaturisce anche da una forte spinta interna che sembra condurre ad una riorganizzazione nella visione di sé, nonché ad una ricognizione graduale delle cose che ci circondano. Certo, ciascuno lo farà coi suoi tempi e con le sue modalità, ma il bisogno di fondo rimanda allo stesso punto da cui si origina e risiede questa sollecitazione così vitale.

Attraverso il racconto e la condivisione narrante, un individuo non solo rimette se stesso all’interlocutore, ma restituisce a se stesso i contenuti che gli appartengono, e che dunque può rivisitare, facendo della propria autobiografia comunicata, uno strumento di rilettura e re-interpretazione di sé.

Questi aspetti aprono prospettive di una ri-programmazione di sé, da stimare in senso costruttivo, specie se dall’altra parte si effettua una valida opera di rispecchiamento, concedendo cioè l’occasione preziosa a chi si racconta, di ri-modellare ciò che ri-apprende da se stesso.

La parola al centro del rapporto di aiuto ridefinisce il giusto orizzonte di autonomia del soggetto interessato, cioè colui che ricevere le giuste procedure di sostegno, e che si riappropria grazie a questo ausilio, della capacità di modellarsi su una dimensione autentica di sé, così da poter scrivere di proprio pugno le nuove pagine di una nuova personale storia ed esistenza.

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