quando l'aiuto è prima di tutto...


 

quando l'aiuto è prima di tutto...

 

            autentica capacità di collaborazione, valida in ogni circostanza e sicuramente fondante nel counseling. Durante il corso di studi, frequentando il Master, ci siamo insistentemente sentiti ripetere che come counselor in ogni colloquio avremmo avuto bisogno della collaborazione del "cliente", del suo coinvolgimento, della sua volontà certa di uscire dal problema e, nella professione di counselor, poi certamente abbiamo potuto sperimentare quanto la partecipazione del cliente al percorso, sia condizione irrinunciabile per avviare qualsiasi cambiamento. Ciò che invece assai raramente viene prospettata e chiarita dai docenti di counseling (almeno per la mia esperienza) è un'altra forma di collaborazione , quella tra il counselor e altri specialisti, come il medico di famiglia, il neurologo, l'omeopata, l'allenatore in palestra, ecc...che abbiano in cura la persona che chiede aiuto ed è proprio su questa forma assai complessa e vulnerabile di collaborazione che intendo soffermarmi.

 

 

            Se mi volgo indietro alle esperienze trascorse della mia vita professionale di counselor, individuo rari casi in cui la persona che ha chiesto il mio aiuto, era "in cura" presso altri specialisti, ma in questi ultimi due anni, i casi si sono moltiplicati, anzi direi che le persone che mi contattano per intraprendere un  percorso di counseling hanno una storia pregressa di molteplici tentativi di soluzione del proprio disagio e nel presente continuano a contattare specialisti di cui hanno una fragile stima, di cui insomma si fidano ma non sempre e non del tutto e ancora continuano a chiedere illuminazioni e soluzioni "magiche" ad amici, parenti e persone che accusano le loro stesse sintomatologie.  Possiamo cogliere in questo l'effetto di un evidente segno dei nostri tempi: la facilità con cui si può accedere a informazioni di ogni tipo. È questa facilità -più apparente che reale, se pensiamo al livello che può avere ciò che viene confezionato per l'ipotetico utente medio , entità del tutto ipotetica-  che aumenta il senso di smarrimento della persona già in difficoltà, acuisce il suo desiderio di informarsi ancora e ancora, di accedere a gruppi di discussione, di cercare il parere di chi vive il suo stesso problema nella sottile debole convinzione di riuscire a comprendersi meglio, e il tutto alimenta in lei aspettative nei confronti di figure che altri hanno presentato come grandi risolutori, insomma illusioni frammentate a raggiera a 360°  e non di rado contraddittorie.

            È proprio un bel problemino e su due versanti, l'uno più ostico dell'altro: la relazione con la persona in aiuto e la relazione con le altre figure di specialisti che stanno già occupandosi di lei.

L'ipotesi più favorevole sembrerebbe quella per cui la persona in aiuto presto, molto presto (magari al secondo colloquio) decida che vuole fidarsi solo di noi, del counselor e quando accade (e non di rado accade), avremo maggiore autonomia, potremo concentrarci solo sulla relazione con lei, tuttavia con un immane carico di responsabilità, proprio perché a noi soltanto, anziché a diversi operatori, è chiesta "la" soluzione.

Non è semplice riuscire ad accogliere la persona e allo stesso tempo farle percepire che la soluzione al problema  dipende in primis da lei, che il nostro sostegno vero non potrà essere una sorta di conforto al suo pianto e al suo lamento giustificato ai suoi occhi dal fatto che, in tali casi, la persona in difficoltà arriva a noi come a una sorta di ultima spiaggia, con la pesantezza di tante disillusioni e tuttavia convinta di saperne, proprio per questo, abbastanza sul suo problema e dunque già orientata a ricevere da noi più che un autentico aiuto, l'approvazione per ciò che pensa e sta per fare o non fare (leggasi approvazione dell'impossibilità del cambiamento).

            In questi casi,  alla difficile relazione con la persona in aiuto,  si aggiunge la difficoltà della relazione con gli altri specialisti, una relazione che va agita inevitabilmente su un terreno quanto mai impervio e scivoloso, minato pregiudizialmente da stereotipi e prevenzioni, immancabili tra professionisti ma autentici muri di gomma quando tra loro compare la figura di un counselor, un professionista sì...ma il cui intervento è considerato poco incisivo e di basso profilo. 

            Ne siamo ben consapevoli e, dunque, come comportarci?

Ogni operatore che ha "in cura" un paziente è chiamato deontologicamente a contattare le altre figure professionali coinvolte nel percorso di "guarigione" del paziente, tuttavia la realtà (da uno dei "miei" recenti casi) è ad esempio questa: il medico di famiglia ha un colloquio  frettoloso, limitato alla prescrizione o trascrizione di farmaci, per cui ignora che il suo paziente si stia rivolgendo anche ad un counselor; identica situazione si ripete con il neurologo che conosce da tempo il paziente a cui prescrive una cura, identica a quella già prescritta quattro anni fa per un problema  simile, e neppure ritiene necessario chiedere ulteriori informazioni; ciò che non dimentica di raccomandare è di assumere da subito i farmaci prescritti e di non smetterli -come è accaduto in passato- minacciando una recrudescenza ben più grave dei sintomi attuali.

All'insaputa del neurologo  e all'insaputa del medico di famiglia, un altro medico e omeopata, da qualche tempo sta seguendo il paziente che (anche lui) conosce da tempo, con una cura appunto omeopatica ribadendogli ad ogni incontro che la terapia è necessariamente lunga e per ora acuirà i sintomi, ma è l'unica efficace strategia per arrivare alla condizione di benessere a alla capacità dii controllo sui sintomi; aggiunge premuroso inoltre che una cura farmacologica sarebbe del tutto errata: i farmaci nasconderebbero il problema che si ripresenterebbe molto più forte, appena quei farmaci fossero sospesi. Anche l'omeopata ignora che il suo paziente sta contattando un counselor.

            Questa è in definitiva la situazione che la persona in aiuto porta, costellata tutt'intorno, naturalmente, di tanti contraddittori consigli che si sommano in un improbabile conto algebrico, di genitori, familiari, conoscenti, amici.

            In una situazione come questa, prima ancora di cercar di capire quali siano i sintomi, quale il focus del problema personale, qual è il malessere che ha condotto la persona a noi, occorre fare chiarezza, aiutarla a mettere in ordine i tanti contraddittori messaggi che per la sua evidente fragilità emotiva sta vivendo in una sorta di percorso accidentato fatto di stop-and-go, diversi e ripetuti.

E dunque?

Dunque, partiamo dalla relazione con le altre figure di specialisti e per questo chiediamo alla persona che ci chiede auto se è concorde con noi e se vuole darci nomi e dati per contattare le numerose persone che si stanno "occupando" di lei. Una volta ottenuto il consenso della persona, ora è tutta una scalata di settimo grado (per usare un... eufemismo) e occorre che ci  prendiamo una pausa.

Presto, la prossima puntata.

 

 

Cordialissimamente,

Giancarla Mandozzi

 

 

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