PECCATO, COLPA O RESPONSABILITA’? Strategie di controllo sociale e possibile emancipazione

Inviato da Nuccio Salis

peccato

Ciascun gruppo umano che intende fondarsi sulla cooperazione e sulle leggi, ricerca forme di organizzazione collettiva che possano sviluppare un senso comune di unione e identificazione. Per tale ragione, l’uomo crea simboli e rituali che suggellino un sentimento di partecipazione e solidarietà nei rapporti fra singoli. Il bisogno diffuso consiste nell’individuazione di un territorio comune, ove si generano codici e significati condivisi, soggetti all’arbitrario mutare delle condizioni e delle dinamiche socio-culturali e storico-ambientali della società stessa.
Da questo punto in avanti, la società sceglie le strategie per conservare il suo assetto, e lo fa a seconda del livello di pressione conformista che adopera nei confronti di ciascun individuo. Vi sono società che adottano misure di omologazione visibili, se non addirittura violente, altre che permettono un certo margine di individualità, altre che praticano sistemi di controllo sull’individuo, non palesemente repressive, ma con risultati altrettanto efficaci.


In ciascun caso, non vi è società che non difenda il proprio apparato, rendendo impraticabile o molto sconveniente, il processo dell’individuazione. Le società tribali, per esempio, fondano il loro sistema su una rigida distribuzione dei ruoli, mediata da principi, credenze e norme che non possono essere messe in discussione. In altro modo, anche se perseguendo scopi di natura completamente diversa, i regimi dittatoriali massificano parti intere di capitale umano, indottrinando le loro ideologie in forza di leggi e di provvedimenti autoritari. La loro opera, nota dal punto di vista socio-politico col termine edulcorato che corrisponde a “collettivizzazione”, imprime di fatto un modello di cittadino asservito al potere che opprime l’individualità. Solo le società denominate liberali o democratiche, sono in grado di costruire l’illusione della libertà individuale; in realtà esse foggiano l’uomo a una dimensione (per citare un’espressione di Marcuse), ovvero infarciscono la vita dell’individuo di distrazioni futili, profani sollazzi e menzogne mediatiche, catapultandolo dentro una visione delle cose che non motiva all’esercizio della critica e della riflessione.
Se le dittature bruciano i libri, le società liberali fanno passare la voglia di leggerli. Gli autori fuori dal coro non finiscono più in galera per aver obiettato al satrapo di turno, è sufficiente ignorarli, screditarli, parlare d’altro, farli apparire ridicoli, moralisti e nemici di tutti quei sollazzi di cui dicevo prima, ed ai quali l’uomo contemporaneo non rinuncerebbe mai, perché gli hanno insegnato che sono il segno del progresso. Non servono più manganelli e carri armati, bastano i giusti programmi televisivi, i giochini sullo smartphone dell’ultima collezione (e guai a quello preistorico che non ce l’ha); così come non occorre più che a scuola si adori il quadretto del gerarca militare, cantando inni patriottici, è sufficiente non occuparsene proprio, delle scuole, lasciarle abbandonate e in stato di degrado, prossime allo sfacelo edilizio, prive di risorse, in modo da essere incapaci di dare risposte al disagio sovrano che impera nelle cosiddette nuove generazioni, e di attendere con serietà e disciplina al ruolo formativo che li compete.
La gente non viene più schedata o controllata violando il suo consenso, sono le persone stesse che invadono le piattaforme sociali sul web, spiattellando all’universo quando e dove hanno preso il caffè al ginseng.
E cosi, qualunque sia la tecnica del controllo preferito, l’individualità è più che spesso sgradita in una comunità che blocca il suo processo evolutivo. Nel procedere storico, qualunque civiltà ha ottemperato a determinate contromisure, più o meno sofisticate, per gestire il pericolo del cambiamento legato all’autentica espressione del Sé. A qualcuno spetta il totem, ad altri il tabù, col medesimo risultato: censurare lo spirito critico e ribelle, soffocare l’individualità che attenta al codice del branco.
Vorrei indicare i due più noti stratagemmi, attraverso cui si producono ostacoli al processo dell’individuazione, onde prevenire la divulgazione di idee e comportamenti sovversivi, come amano definirli i professionisti della macchinazione e del controllo.
Il primo a cui faccio riferimento è il peccato. La letteratura e l’argomentazione prodotta su tale concetto, è talmente abbondante che non vi è bisogno di discettarsi in disamine troppo minuziose ed approfondite. Il senso del peccato è stato, ma forse lo è ancora, il più grande collante per sostenere le strutture di una società. La violazione di leggi stabilite da rituali, convenzioni ed abitudini, non obbliga in certi casi a risponderne a un tribunale umano, quanto ad un’autorità divina. Il taumaturgo mediatore del caso è il sacerdote, investito del potere assolutorio, che esorcizza ed espia dal peccato, ristabilendo l’ordine perduto dentro l’anima afflitta.
Il correlato nevrotico conseguente al peccato è la colpa. Fra i sentimenti decisamente più deleteri e nocivi che un organismo psiche-soma possa conoscere. La colpa fa perdere di vista la misura stessa della propria umanità, disperdendone il valore, offuscandone la luce e annebbiando la visione della meraviglia. La colpa, quando non è effetto di un processo riparatore, si associa ad una sensazione di essere sbagliati, inferiori, inadeguati, incapaci e destinati alla sofferenza. Con l’età contemporanea, lo sciamano di turno è cambiato; non è più il sacerdote di cui prima, poiché questo passa il bastone caduceo allo psicologo, investito del ruolo di sostituire l’inginocchiatoio con la poltroncina reclinabile e di scaricare l’IVA sulla questua. Ora il portatore di colpa non è più una pecorella smarrita, è diventato la gallina dalle uova d’oro.
Ma si può davvero vivere senza colpa? È pensabile una società dove nessuno ha paura di fare i conti con la propria coscienza? Non si tratta certo di auspicare una polis dove ciascuno si sente autorizzato ad ovviare le norme condivise, a scampare dai rimorsi, ad affrancarsi dai ripensamenti o pentimenti, o ancora di evitare gesti riparativi su un danno prodotto. Si tratta di saper dissociare l’errore compiuto dalla sensazione di essere sbagliati dal punto di vista ontogenetico. In pratica, se io ho fatto un errore, io non sono quell’errore. È anche un concetto educativo di base, molto spesso purtroppo ignorato da figure educative che sottolineano un errore colpendo l’autore come persona, e minandone il valore umano. Qualche esempio, quando si rimprovera un bambino perché si fruga le narici con le dita (non sempre solo delle mani) e gli si urla che è schifoso, e non che sta facendo una cosa disgustosa e che non è apprezzata. Oppure ancora quando certi insegnanti, invece di limitarsi a correggere e sottolineare gli sbagli in un compito di uno studente, non sanno resistere a chiosare con un “stupido”, “incorreggibile ignorante” ecc.
Eppure esiste una via ideale, che consente di ammettere il proprio errore, misurarne ragionevolmente l’entità, riprovare a stabilire un percorso appropriato; questa via si chiama responsabilità.
È sufficiente anche soltanto cambiare questa semantica, nei processi educativi, per generare risonanze che facilitino la presa di coscienza di sé, la capacità di autorappresentarsi con i messaggi-Io, di parlare di sé e del proprio rapporto con l’errore. Un invito che bisognerebbe fare spesso, a coloro che sono genitori, in questo difficile momento epocale, bandire l’uso della parola “colpa”, e sostituirla con “responsabilità”. L’espressione “è colpa tua”, umilia, disprezza, non concede opzioni per un cambiamento propositivo, ferisce nei sentimenti ed attenta alla capacità di apprezzarsi. Crea un devastante effetto alone secondo cui l’intera persona si percepisce come sbagliata, come inutile e indegna per esistere. Tale espressione, ripetuta continuamente è una formula accusatoria che rende insicuri, vulnerabili, sottrae assertività e paralizza ogni più utile iniziativa.
L’espressione “è una tua responsabilità”, impegna, sollecita ad un’azione ponderata, sollecita a valutare le conseguenze delle proprie scelte ed aiuta a concentrarsi maggiormente a sviluppare i propri punti di forza. Percepirsi responsabili, e non in colpa, aiuta a sentirsi liberi, ed è per questa ragione che una società che bandirà il senso del peccato e quello conseguente della colpa, sarà una società che saprà solo allora scrollarsi di dosso una storia umana connotata dalla violenza e dalla sindrome del controllo sul prossimo.
 

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