Relazione come atto educativo


relazioni bambini

Relazione come atto educativo, proposta teoretica della pedagogia fenomenologica Non si può non tenere conto del continuo fluire di eventi rendendo la realtà un perenne cambiamento. Tutto cambia sempre in un nuovo divenire e comprendere la giusta armonia per collocarsi come soggetto significante in una naturale relazione col mondo non è sempre facile, anzi, riflettendo sul fenomeno che condiziona l’esistenza dell’uomo ci si scontra in saperi sempre più complessi, educare al riconoscimento di sé, dei propri limiti e risorse, come il fluire di un fiume che scorre, non sempre in un percorso lineare, ma trova nella realtà della natura sempre il suo fluire in costante cambiamento e rinnovamento. Non ci si può bagnare due volte nella stessa acqua, ma la sensazione della prima volta è molto significativa, c’è sempre un relazionarsi col senso che si dà agli eventi.

Relazione come atto educativo, cosi intendo definire una dimensione soggettiva di un profondo significato, con la quale un individuo esperisce una autonomia che lo rende libero di esprimere se stesso nel mondo con gli altri, l’essere in relazione. L’individuo protagonista e artefice del suo contributo soggettivo in una continua interazione con l’ambiente circostante, dove trova spunti per una conoscenza formativa-educativa da poter fruire per un’esistenza coerente. Credo che la relazione possa essere un processo di sviluppo interiore per riscoprire se stessi e riconoscere i propri vissuti, fruibili sul piano della prevenzione quanto quello riabilitativo o terapeutico, per una visione del mondo più dinamica con capacità di reazione al sentirsi non adatti alla realtà, con la possibilità di elaborazione e organizzazione del pensiero con maturazione cognitiva per scardinare quei blocchi che impediscono o limitano una consapevolezza del proprio stato esistenziale, per poter trascendere dal dato oggettivo in cui la soggettività si relaziona.

Centrare una riflessione sul soggetto come oggetto di significati e significante, cogliere quello che è per lui il modo intenzionale di attribuire senso alla realtà, perché comunque sempre espressione del suo sapere. Caratteristica dell’intenzionalità è essere sempre in atto o in situazione, mutandosi in nuovi atti di coscienza, pur se non relativamente congrua al sé soggettivo da limiti tratti dal disequilibrio interno. In questa tesi voglio trattare il fenomeno della tossicodipendenza in una prospettiva teoretica volta a scrutare il fenomeno dal punto di vista del tossicodipendente con le sue relative carenze educative, manifestate in una scarsa capacità relazionale.

Per poter trattare l’argomento, restando in campo pedagogico e mantenendo, per quello che mi riesce, una certa continuità argomentativa in linea col pensiero, del prof. P. Bertolini, spesso attingo a lavori e riflessioni da lui trattati sulla pedagogia fenomenologica, per raggiungere una maggiore chiarezza in quello che voglio dire riguardo ad una riappropriazione della propria autonomia relazionale. Esponeva così il suo pensiero: Una prima indicazione forte contenuta nella proposta teoretica della fenomenologia, e che consente di pervenire ad una lettura dell’esperienza educativa di straordinario interesse pedagogico, consiste nel richiamo che essa ha fatto perché l’uomo sappia (ri)guadagnare la propria soggettività sia a livello individuale sia a livello comunitario. Il che vuol dire, in prima istanza, lottare contro ogni forma di alienazione che si esprime tanto in una rinuncia (in una impossibilità?) alla propria autonomia o, se si preferisce, in una passiva acquiescenza nell’eterodirezione; quanto in quella crisi della cultura e della società che si caratterizza in una perdita di senso delle loro strutture e delle loro stesse ragioni d’essere. In altre parole, riguadagnare la propria soggettività significa (ri)prendere coscienza del proprio responsabile coinvolgimento nel costituirsi stesso della storia personale e sociale. Il ritorno alla propria soggettività può essere legittimamente considerato come un obiettivo centrale di ogni esperienza (azione) educativa - non è, nel caso della fenomenologia e a maggior ragione della pedagogia fenomenologica, un ingenuo ritorno al modo classico e moderno di intenderla, come fondamento stesso della realtà e dunque come esasperato antropocentrismo.

Nell’interpretazione fenomenologica della soggettività, la cui caratteristica strutturale sarebbe costituita soprattutto dall’intenzionalità ovvero dalla capacità di dare un senso (dei molteplici sensi) a ciò che le è esterno, la presenza dell’oggettività (sia della realtà materiale sia delle ‘altre’ soggettività), infatti, non solo è riconosciuta come avente una propria radicale autonomia, ma è considerata addirittura come costitutivamente necessaria all’esistenza stessa della soggettività. Come dire che, secondo questa interpretazione, non si dà un soggetto (gli infiniti soggetti) se non nel suo rapporto con un oggetto (con gli infiniti oggetti), così come, corrispondentemente, non si dà alcun oggetto se non in quanto esso si trovi in rapporto con un soggetto. Come disse Husserl, “ogni vissuto è infatti caratterizzato dal fatto di essere intenzionale, cioè di contenere un riferimento a un oggetto o a un significato”. Proprio per questo, la soggettività di cui qui si parla, ed alla quale la pedagogia fenomenologica fa esplicito riferimento, non può in alcun modo essere concepita (e trattata) come una soggettività assoluta (di idealistica memoria), ma sempre come una soggettività biologicamente, psicologicamente, materialmente condizionata, dunque sempre individuale. L’interpretazione fenomenologica non è, dunque, oggettivistica né soggettivistica, ma ‘relazionistica’. In questo senso, si tratta di (aiutare a formarsi) una soggettività debole poiché ben consapevole della propria storicità e quindi della propria precarietà esistenziale, testimoniata d’altro canto dai tanti suoi fallimenti concreti ma non per questo necessariamente rinunciataria o caratterizzata da un inevitabile naufragio.

Al contrario, proprio la sua strutturale debolezza le restituisce tutta la sua responsabilità esistenziale o, se si preferisce, la sua capacità di intervenire significativamente sul mondo, sugli altri e su se stessa, momento per momento, secondo una prospettiva operativa che rinvia ovviamente anche al realizzarsi delle molteplici esperienze educative. Da qui la seconda indicazione forte che emerge dalla fenomenologia e che consente, sempre a nostro parere, una interessante lettura dell’esperienza educativa.

Si tratta dell’interpretazione husserliana della conoscenza e/o della verità. La conoscenza (la verità), come, sulla scorta della tradizione fenomenologica, non va intesa come lo sforzo dell’intelletto umano per adeguarsi alla (ad una) realtà esterna in quanto presuntivamente dotata di strutture oggettive ed assolutamente vere, né come una sorta di imposizione del soggetto alla realtà esterna delle proprie modalità di funzionamento, fino alla pretesa idealistica di considerare reale solo ciò che è razionale. Si tratta invece di concepirla come un processo costruttivo sempre dinamico e dialettico (storicamente condizionato) nel quale ciò che conta è l’essere in quanto si manifesta e si rivela. Il soggetto va, dunque, interpretato come apertura a… e l’oggetto come rivelantesi a… e la conoscenza come lo sforzo di cogliere il ‘come’ dell’essere (l’esistere), sapendo che questo ‘come’ dipende anche dall’attività del soggetto, condizionata a sua volta dallo stesso oggetto verso cui si dirige.

Come dire che il problema della conoscenza e della verità, che è certamente cruciale per l’educazione, si affronta e si risolve anziché con la pretesa di cogliere il ‘soggettivo’ e l’’oggettivo’, con lo sforzo di cogliere di ogni fenomeno (di ogni realtà) il senso o il significato, nella consapevolezza che l’unica verità-per-l’uomo che conta davvero é l’insieme dei significati che egli contribuisce a costituire. Bertolini sostiene che è fondamentale parlare di verità del senso anziché del senso della verità. L’accostamento del termine ‘senso’ a quello di ‘verità’, infatti, impedisce di intendere quest’ultimo in una accezione che richiami l’orizzonte della certezza, dell’assolutezza, dell’inconfutabile; mentre l’accostamento del termine ‘verità’ a quello di ‘senso’ comporta la non accettazione per quest’ultimo di una interpretazione soggettivistica che finirebbe per essere il fondamento di posizioni di scetticismo, agnosticismo, qualunquismo. Sostenere che il senso ha una verità comporta il riconoscimento che esso ha una inconfutabile dignità e persino una ‘oggettività aposteriori’ di cui occorre prendere atto per tentare di comprenderlo nella sua autenticità.

Una terza indicazione forte emergente dalla fenomenologia è la prospettiva della intersoggettività che si afferma per l’impossibilità, di parlare di ‘io’ senza parlare nel medesimo tempo dell’altro, degli altri io e/o delle altre persone: l’io e l’altro si richiamano vicendevolmente giungendo così a costituire un complesso tessuto di relazioni intersoggettive. Da qui la legittimità di sostenere l’esistenza di una intersoggettività originaria, ovvero di un tessuto sociale costitutivo della stessa esperienza umana. Poiché anche l’intersoggettività si attiva mediante la capacità intenzionale, ci si trova di fronte a delle verità-per-noi (da cui derivano le diverse culture e i diversi saperi) che, pur andando al di là delle singole verità-per-me (per-te, per-lui…) non le elimina. Ebbene, una lettura fenomenologica dell’esperienza educativa caratterizzata dalle indicazioni appena precisate appare non solo possibile e legittima ma, come ho via via riconosciuto, di grande interesse, consentendo di allontanarci dalle due concezioni estreme di quella esperienza che ho individuato all’origine della crisi della nostra contemporaneità.

I risultati di essa possono essere così sintetizzati:

1) L’esperienza educativa è sempre una esperienza in situazione, il che comporta il rifiuto di ogni tentativo di ingabbiarla in formule e schemi precostituiti.

2) Il suo ‘essere in situazione’ è legato non solo al fatto che si tratta sempre e comunque di un rapporto fra due o più soggetti, ma anche alla constatazione che essa risulta un processo continuo ma non per questo necessariamente lineare, che senza rifiutare il passato e tanto meno il presente ha nel futuro (da intendersi come possibilità ovviamente sempre aperte) la sua più propria connotazione.

3) Essendo in situazione, l’esperienza educativa, comunque la si imposti e la si realizzi, non risulta mai caratterizzata dalla certezza e dalla sicurezza: gli stessi principi della relazione e della possibilità possono essere disattesi fino al punto di rovesciarsi nel loro contrario.

Ad esempio, qualsiasi relazione adulto/bambino può trasformarsi in un caso di non-relazionalità quando il primo tendesse ad imporre al secondo la sua volontà, i suoi convincimenti, le sue ‘verità’; analogamente il trattamento di una istituzione come la scuola che dovrebbe, per la sua stessa ragion d’essere, caratterizzarsi come l’occasione forse più stimolante per un autonomo costituirsi del futuro dei propri ospiti, può tramutarsi in un trattamento che di fatto lo ‘blocca’ quando invitasse o addirittura obbligasse i soggetti che la frequentano ad una semplice e passiva accettazione di un sapere fatto vivere come definitivo ed intoccabile.

4) La visione del mondo personale che emerge dalla capacità intenzionale di ogni individuo (quindi anche dell’educando) è sempre aperta e soggetta al cambiamento. Essa, di fatto, costituisce anche il quadro motivazionale (non causale, sia ben chiaro…) del comportamento e dell’insieme delle condotte di ciascuno, e perciò consente all’educatore di instaurare un rapporto non autoritario ed impositivo, ovviamente se e nella misura in cui egli sappia rifarsi (per riconoscerne comunque la dignità) entropaticamente ad essa.

5) L’intervento educativo di conseguenza non consiste (non deve consistere), nell’imporre una determinata visione del mondo - quella giudicata migliore o addirittura come l’unica ‘vera’ dall’educatore - ma nel far vivere all’educando una serie di esperienze nuove e stimolanti, ovvero nell’espandere il suo campo di esperienza esistenziale, in modo che sia lui stesso in grado di arricchire, se necessario (come nel caso del ragazzo difficile) di modificare anche radicalmente, la propria visione del mondo.

Domenico Perrupato

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