Si può essere "cristianamente counselor" rispettando la laicità?


counseling cristiano

Come promesso nel primo articolo, in cui lasciavo a voi la risposta all’ultima domanda in esso contenuta, qui vi parlo della mia opinione, sperando di poter dare vita ad uno scambio costruttivo che, un domani, chissà, potrebbe costruire un percorso innovativo nella formazione al counseling umanistico. Grazie a tutti.

 

Come counselor sono abituata a vivere il momento presente e a dare ascolto a ciò che sento nel qui e ora: sinceramente ciò che sto sentendo adesso è un leggero tremito interiore, un timore sottile che proviene dalla consapevolezza di quale compito complesso io mi sia data, nel tentare di condividere con i miei colleghi, in particolare con quelli che sono o si definiscono credenti, la mia profonda, seppure intangibile convinzione che sì, è possibile portare l’amore cristiano nel nostro lavoro, pur senza essere ecclesiastici, o teologi, o missionari e che tale possibilità permane anche se i nostri clienti sono atei o appartenenti ad altri credo.

 

 

L’amore cristiano è testimonianza, prima ancora che insegnamento: testimonianza reale di fiducia, di speranza, di gioia; capacità, seppure faticosa, di “toccare” una persona accogliendo le sue difficoltà senza giudicarle, accettando come occasione di crescita anche le nostre personali difficoltà nel relazionarci con gli altri.

 

Non sto affermando che sia facile, né che possa avvenire costantemente, né che sia sufficiente desiderare di amare cristianamente per riuscire a farlo.

 

In realtà sto affermando che è possibile, senza mancare di rispetto ad alcuno, senza tenere sermoni, senza volontà espressa o inespressa di convertire tutti.

 

Nella mia immaginazione (fervida, lo ammetto, ma se così non fosse non sarei una vera counselor) tra il proclamarsi cristiani e l’esserlo davvero, scorre un fiume le cui sponde sono in alcuni punti così larghe, da renderci impossibile la visione della riva opposta; un fiume solcato dalla nostra piccola imbarcazione di uomini e donne in ricerca dell’essere, più che del sentire; un fiume le cui acque scorreranno a volte quiete e silenziose, cullandoci e impigrendoci; a volte più vivaci e fragorose allertando tutti i nostri sensi; o ancora, là dove l’alveo si restringerà, permettendoci di scorgere nuovamente la sponda opposta, si faranno minacciose, quasi a volerci impedire l’approdo alla riva “dell’essere davvero cristiani”.

 

Infine, una volta libere dagli impedimenti naturali, riprenderanno a scorrere fluide e veloci fino alla meta, il mare, in un movimento continuo, mai uguale, lasciandoci la scelta di tornare da dove siamo partiti, di approdare alla riva opposta o di continuare insieme a loro per scoprire altri fiumi, altri orizzonti.

 

Per tre anni mi sono formata per potermi forgiare del titolo di “gestalt counselor integrata”; per tre anni ho ascoltato con attenzione e interesse le molteplici teorie e metodologie proposte dai pezzi da novanta della psicologia umanista; in numerose occasioni ho ascoltato e appreso come il buddhismo, lo zen, la meditazione trascendentale fossero strumenti efficaci per la scoperta di sé (del Sé, come ce lo mostra la Gestalt di Perls), per il raggiungimento di una certa pace interiore.

 

Oggi, pur avendo imparato molto e pur essendo grata ai fondatori del movimento per il potenziale umano e ai docenti che si sono succeduti nelle aule, rivolgo il mio desiderio più profondo all’idea che possa nascere una psicologia cristiano-umanista, con un suo percorso di formazione al counseling, con una sua modalità che continui, sì, a mettere la persona al centro della terapia e della relazione di aiuto, ma senza lasciarla lì da sola, bensì affiancandole Cristo, il Counselor per eccellenza, ritrovando l’originario spirito di rispetto, accoglienza e amore verso tutti gli uomini e rifiutando l’ormai (per me) scontata banalità di coloro che affermano che, come counselor, o terapeuti, o formatori, o educatori, bisogna rimanere “laici”, per non urtare la sensibilità di chi non crede o crede in altro. E’ la banalità (per me) di chi non ha conosciuto o compreso l’essenza del messaggio cristiano e lo riconduce solo ad un dogma, ad una religione specifica. E’ questa stessa banalità (per me) ad offrire un comodo alibi a noi credenti, permettendoci di rimanere sullo sfondo (cristiani da salotto, ha definito Papa Francesco i cristiani che si accontentano di seguire il flusso del pensiero unico, anziché andare controcorrente) ed evitandoci la fatica di costruire un modello di psicologia che si ispira a Cristo.

 

Lascio alle mie riflessioni successive il compito di svelare più in dettaglio questa possibilità che appartiene a noi professionisti delle relazioni d’aiuto cristiani: per ora mi limito ad invitarvi a leggere e rileggere più volte, nel silenzio e nell’apertura del cuore, l’inno all’amore di San Paolo e alcuni episodi degli Atti degli Apostoli.

 

La lettura potrà forse aiutare i fautori della banalità di cui ho appena scritto, ad acquisire qualche conoscenza in più rispetto all’universalità del messaggio cristiano, portato avanti nel pieno rispetto delle diversità:

 

Atti degli Apostoli: visione di Cornelio 10,1-8 / Visione di Pietro 10,9-23 / Incontro tra Pietro e Cornelio 10,23-33).

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