C’E’ CHI DICE “NON ANCORA”: La filosofia di chi decide di non decidere

Inviato da Nuccio Salis

decidere ora

Decidere e non decidere, sono entrambe prese di posizione forse non del tutto associabili esclusivamente alle capacità logico-strategiche di una pianificazione efficace. Chi decide è non soltanto competente nell’organizzazione del proprio percorso di affermazione e conquista di propri obiettivi, ma anche mobilitato dalla motivazione, dalla fiducia in se, e forse, perché no, anche da una sana propensione al rischio. Molto spesso è proprio il gusto esercitato dall’attrattiva di una nuova sfida, a sollevare ciascuno di noi dall’apatia, a direzionarci in un percorso di crescita in cui anche l’imprevisto, l’intuito e la fortuna possono rivestire un ruolo di variabili non del tutto certe e programmabili, e che proprio per siffatta ragione potrebbero rivelarsi facilitanti anziché ostacolanti. Chi non decide, rinvia il peso opprimente della sfida, e come colui che decide, molto spesso non lo fa soltanto in riferimento ad un quadro di congetture e deduzioni causali, estremamente vincolate ai dati e al senso di realtà, ma non assume decisioni significative in quanto troppo destabilizzanti per il proprio abituale orizzonte di stabilità prevedibile e controllabile.

Decidere e non decidere, dunque, al di là di evidenti distinzioni personologiche attribuibili all’uno o all’altro individuo, fa parte di un processo che coinvolge ed implica non soltanto le aree di valutazione causale, probabilistica e concreta di realtà, ma richiama decisamente anche il sistema di convinzioni e motivazioni individuali. Questo spazioso calderone di esperienze elaborate e filtrate in modo personale, è influenzato dalla complessa ed interna sorgente emozionale, che si interpola coi processi della rappresentazione cognitiva della realtà, offrendo una risultante costruita dalla trama delle vicende personali e dalle procedure di fronteggiamento che hanno caratterizzato le risposte dell’individuo interessato. 

 

Se ne può dedurre che, in un percorso di accompagnamento alla presa di decisioni, i fattori emozionali meritano altrettanta considerazione quanto le strategie di azione, programmate in luogo dello spazio-tempo, delle aspettative e degli obiettivi oggettivati della persona facilitata.

Innanzi a questo principio, il soggetto che decide è pari a quello che rimanda le scelte. Naturalmente è più che probabile che il primo sia più gestibile del secondo, in quanto colui che non decide manifesta maggiori resistenze, passività, inazione e chiusura rispetto a chi affronta i processi decisionali, con l’obiettivo di rendersene protagonista principale. Si può intuire come sia difficile sollecitare colui che procrastina i suoi impegni, che vive senza o con poco entusiasmo le prospettive di una scelta, e che preferisce la stagnante paralisi dell’abitudine senza variazioni alla possibilità dell’accrescimento e dell’espansione di sé.

Il soggetto demotivato, che si dispensa dalle richieste ambientali legate allo sviluppo delle proprie potenzialità, diventa un compito impegnativo per colui che è investito del compito di mobilitarlo ad una attivazione funzionale, con riscontrabili dati di crescita e miglioramento per il soggetto che si è sbloccato dallo stallo della non decisione.

Insegnare a vincere la propria apatia paralizzante, dandosi occasioni e possibilità di emancipazione e riscatto personale, è un obiettivo che spesso diventa il terreno di battaglia più provante per un counselor o una qualunque altra professione di aiuto. In assenza di strategie pre-impacchettate, il professionista dell’aiuto ha l’obbligo di approfondire la conoscenza della persona, per individuare risorse, interessi, abilità, propensioni e attitudini che mirino a minare lo scacco dell’inattività, all’interno di un progetto proposto e vissuto come non troppo invasivo, non troppo destabilizzante, rispettoso dei tempi e delle caratteristiche proprie di ciascun individuo storicizzato.

È importante, per prima cosa, che l’utilità di una presa di decisione sia percepita dal soggetto che deve essere aiutato, meglio se misurata oggettivamente dallo stesso. Non devono essere terzi, infatti, tantomeno il counselor, a programmare la scaletta delle priorità in un individuo. È necessario tenere caldamente conto di questo aspetto, pur cercando in qualche modo di bonificare una visione eventualmente distorcente sulla propria natura di persona. Tuttavia, come è risaputo, l’opera del counselor non consiste in un processo di convincimento forzato della persona, in merito alle sue capacità, possibilità o attitudini, e ciò per le ragioni esplicitate in precedenza, quando facevo riferimento al legame interdipendente fra aspetti cognitivi ed aspetti emozionali nella formazione del sistema di concetti e motivazioni propri di ciascuno.

Quindi, ci si chiederà, cosa invece può fare un counselor, di fronte ad un “fenotipo resistente” che si solleva cioè dalla responsabilità di assumere decisioni improntate verso l’autonomia di sé.  Gli strumenti e i percorsi del counseling rimangono quelli indicati nella letteratura in riferimento a tale professione. Credo sia espressamente doveroso conoscere la cornice psicodinamica dentro la quale ciascuno di noi si qualifica. Essa contiene, nello specifico, tutte quelle sfumature personologiche e motivazionali di un individuo caratterizzato dall’atteggiamento della non decisione e del rimando. Proviamo a costruirne un quadro e ad esplorarne gli elementi corrispondenti.

a ) Forse, la ragione principale per la quale un soggetto non si adopera a nessuna attività, risiede nel fatto che non ne è stimata o considerata l’utilità. È in genere la situazione di chi vive in un contesto ipostimolante o poco normativo, nel quale non vi è percezione di significatività in merito a obiettivi che rimandano allo svincolo, all’autonomia o al raggiungimento di una qualche competenza spendibile. È lo stato larvale di chi ha imparato a sottrarsi dalle richieste dell’ambiente, riuscendo a porsi in una posizione egocentrica secondo la quale la presenza altrui è finalizzata al soddisfacimento di sé e dei propri bisogni.

b ) Si può non decidere e rinviare anche per via di questioni più “tecniche”. Ovvero, il soggetto sente di non possedere le capacità organizzative per strutturare un lavoro. Soprattutto chi non è avvezzo alla programmazione sequenziale di un’attività, potrebbe avvertirne l’impaccio in seguito all’eventuale richiesta delle circostanze.

c ) Il soggetto che sente di potersi permettere di prorogare le decisioni, spesso riduce sensibilmente la valutazione oggettiva di un lavoro da svolgere. Vale a dire che rimanda le decisioni in un tempo  da destinarsi, nella convinzione che l’attività richieda un minimo sforzo, o che possa essere risolta facendo ricorso alle proprie facoltà, spesso sopravvalutate, specie in riferimento alla necessità di recuperare e concludere tutto al tempo limite. Sono quelli “dell’ultimo minuto”, che si ritrovano poi a fare le cose in modo trafelato, scoprendosi impreparati e quindi inefficaci.

d ) Il motivo forse più semplice ed immaginabile per cui una persona dovrebbe dilazionare le proprie scelte, optando verso qualcosa che è percepito come più appagante, risiede nel fatto che in taluni soggetti è dominante il lato ludico ed edonistico. In pratica, si tratta di individui caratterizzati dallo slogan “prima il piacere poi il piacere”, che non riescono cioè a rinunciare a qualcosa che li gratifichi, oscurando così qualsivoglia processo maggiormente impegnativo, costruttivo e maturativo. Non si tratta di recidere il lato bambino di un adulto, che è quanto di più prezioso occorra valorizzare,  quanto di conciliarlo con le prospettive di un’esistenza che richiede anche strutture identitarie più evolute, ovvero più ricche di strumenti di lettura e di fronteggiamento nei riguardi dell’esperienza.

e ) Esistono poi motivi anche in ordine ai disturbi della regolazione e nello specifico dell’attenzione, che ostacolano il regolare procedimento di un’attività e la lucidità richiesta, in merito anche alle scelte da intraprendere. In questi casi, nel soggetto è presente una dinamica di disordine interiore, come causa principale di una ricaduta anche esterna in termini di inefficacia ed in appropriatezza delle proprie decisioni. Spesso, sono tali fallimenti a rinforzare un atteggiamento di resa di fronte alla possibilità di contemplare progetti e decisioni.

f ) Non possiamo certo sottostimare o trascurare quanto sia influente l’idea di se, degli altri, del mondo, nella percezione delle aspettative in merito alle proprie azioni. Su questo punto, per esempio, la teoria del Copione, nell’Analisi Transazionale, ci insegna e ci dimostra che ciascuno di noi agisce secondo un piano di vita che è frutto di scelte non consapevoli determinate dalle modalità con cui ciascuno di noi, fin da molto piccolo, avrebbe interiorizzato il mondo, creandosene una propria personale rappresentazione. Il Copione suggerisce sempre come l’approccio fra noi e la realtà sia mediato dall’idea di IO e di ALTRI, e quindi si impone sempre come un’interfaccia che non garantisce mai l’autenticità nella visione di sé e del mondo. In pratica, il Copione ha sempre una valenza negativa, perché attraverso di esso si gestiscono le strutture e i processi delle relazioni interpersonali, con l’inevitabile esito di parteciparvi attraverso un personaggio-maschera.

Nel caso specifico della personalità del non decisore, un particolare vincolo identitario ed agente rimanda al costrutto del Copione Quasi, ovvero a quel piano di vita caratterizzato dalla resa dell’ultimo minuto, ovvero quando ci si ritira prima di realizzare il proprio obiettivo tanto anelato, e per il quale si è lavorato con sacrificio ed abnegazione. Alla base di tale movimento, del tutto o in parte sfuggente alla consapevolezza di chi lo agisce, esisterebbero delle profonde insicurezze interiori, maturate in un delicato periodo di vita che viene collocato fra i 2 ed i 7 anni; range dentro il quale, secondo la teoria copionale dell’AT, si inscrivono le istanze di base che connotano il nostro personaggio da proporre nel palcoscenico della vita sociale.

g ) Avvertita in maniera più consapevole  la paura di sbagliare, con annessa percezione di auto-inefficacia, darebbe luogo ad un atteggiamento prevenuto di non decisione, da interpretare come strategia preventiva di protezione dal fallimento, sentito ed atteso come inevitabile.

 

Per l’ordine di motivi appena illustrato, una moltitudine di soggetti si ritrova ad ritardare, o talvolta a rinunciare, alla possibilità di riscatto, sviluppo ed emancipazione offerto da un potenziale percorso da intraprendere.

Quali contromisure possiamo adottare, come professionisti dell’aiuto, per promuovere nel soggetto incoraggiamento, motivazione, e salvarlo in molti casi dall’apatia e dallo spreco di sé come effetti di una rinuncia?

Sulla base di tutti i motivi descritti, ciò che possiamo proporre, potrebbe orientarsi abbracciando sia gli aspetti organizzativi che quelli squisitamente motivazionali. In pratica, prendersi cura di due aree dell’individuo non decisore, e considerarle insieme.

Ciò che ad una prima valutazione sembra costituire un aspetto saliente, riguarda l’alternativa di un nuovo piano di vita e rinomata percezione di sé. Si intuisce la portata di un lavoro ristrutturante, che preme per una rivoluzione piuttosto marcata circa le proprie coordinate esistenziali e personologiche. Certamente un percorso da proporre per gradi ad accessibilità crescente.

Un programma di riabilitazione alla scelta, ad orientamento strategico-motivazionale, dovrebbe puntare a formare nell’individuo capacità di organizzazione di un compito, ovvero guidarlo ad acquisire competenze analitiche, pensiero causale e deterministico, dunque capacità di concatenamento (composizione-scomposizione) sequenziale dei passaggi principali che definiscono un’attività complessa. Insieme all’aspetto tecnico della task-analisys, è fondamentale coniugarvi un atteggiamento positivo, costruito sulla fiducia di sé, rinforzata da eventi tangibili che l’hanno scoperta, accresciuta e corroborata. Diventa importante insegnare l’importanza del legame fra spinta motivazionale e realizzazione, favorendo cioè aspettative rinfrancanti, immaginando il successo e il raggiungimento dell’obiettivo. Le tappe da centrare devono inoltre essere caratterizzate anche da obiettivi brevissimo termine, in modo da avere occasioni di rinforzo, che sollecitino e rilancino una rinnovata percezione di autoefficacia e stima di sé. Occorre, a questo proposito, mirare ad obiettivi tempestivamente raggiungibili e che prevedano un soddisfacente grado di appagamento psicologico. Inoltre, vi sono casi in cui si rende necessario orientare il soggetto verso un atteggiamento più maturo, consapevole e responsabile, grazie al quale sottrarsi dal violento impulso dionisiaco del gioco che sostituisce ogni aspetto della vita (vedi, per esempio, fenomeni come la dipendenza da gioco o ludopatia). In tale ipotesi circostanziata, il progetto che abilita alla capacità decisionale assumerà una connotazione decisamente educativa, dal momento che, per ritornare al linguaggio transazionale, il soggetto partecipe dell’intervento dovrà rafforzare il suo Io-Sè Genitore, interiorizzando nella pratica l’utilità del principio “Prima il dovere poi il piacere”, in sostituzione alla dirompenza di un Io-Sé Bambino senza controllo.

La complessa moltitudine degli aspetti messi in gioco, obbliga ciascun operatore dell’aiuto ad un approccio in cui nulla può essere dato per certo e per scontato, poiché l’ultima parola, o meglio l’ultima decisione, spetta proprio a colui che in genere decide di non scegliere. L’affiancamento modellante di un counselor molto risoluto e determinato, potrebbe rivelarsi la risorsa principale nel difficile ed impervio cammino del cambiamento.  

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