integrazione tra…pari


integrazione

 

integrazione tra…pari

 

            Un episodio di quotidiana “normalità” e, come tanti altri, relegato tra quelli che non meritano neppure attenzione né, tanto meno tentate soluzioni o ragionamenti.

Breve descrizione della situazione:

pomeriggio estivo in spiaggia.  Sei ragazzini tra gli undici e i quattordici anni seduti su due sdraio affiancate sono alle prese con il gioco delle carte.

            Ogni ragazzo possiede un certo numero di carte che custodisce gelosamente e uno tra tutti, che sembra tra i più piccoli di età, le consulta continuamente tenendole in una custodia indossata a tracolla.

Di tanto in tanto si alza qualche vociata, qualche risata o qualche segno di baruffa, ma poi il sorriso prevale, fino a che in venti minuti il gusto del gioco comincia a diminuire e si notano le prime defezioni: si allontanano due ragazzi, poi si stacca dal gruppo un terzo, un quarto e gli ultimi due che ancora hanno voglia di giocare si spostano di qualche metro verso un’altra sdraia.

 

Per circa cinque minuti il gruppo originario resta diviso:  quattro ragazzi vanno gironzolando qua e là senza una meta e compiendo giri sempre meno ampi avvicinandosi  progressivamente ai due che ancora giocano con le carte.

La manovra di avvicinamento è da manuale: ognuno dei quattro ragazzi si avvicina con atteggiamento e andatura sua propria, il primo arriva mostrando desiderio di essere inserito nel gioco, il secondo con aria soltanto curiosa da spettatore, il terzo e il quarto con aria di superiorità, di malcelata indifferenza e con qualche lampo di furbizia negli occhi.

            In pochi minuti sono quattro i ragazzi che giocano di nuovo a carte e due sono i “suggeritori”, gli esperti che hanno il ruolo di sostenere uno di loro.

Le voci e i dialoghi offrono precise informazioni a chiunque lì intorno: uno di loro, proprio quello che sembra essere il più piccolo, è iraniano e non sa esprimersi nella nostra lingua, dunque ha bisogno dell’aiuto del più grande del gruppo che ha quattordici anni e parla correntemente due lingue, perché è nato in Italia, da genitori iraniani.

            Ho appena il tempo di compiacermi di questa spontanea attività di apprendimento cooperativo e quasi mi sto spingendo a pensare che educatori e formatori potrebbero prendere esempio dai più giovani che già sono indotta a sospendere ogni considerazione, perché la situazione muta radicalmente.

Il dettaglio scatenante appare la bassa statura, a discapito dei suoi quattordici anni, del ragazzo esperto in due lingue, che chiameremo O.: alla domanda di quale classe abbia frequentato, risponde che ha superato l’esame di terza media e, lo sa, non si direbbe perché è basso, ma ha quattordici anni e chiede in quale scuola gli altri abbiano frequentato la prima o la seconda media: è la sua stessa scuola, allora domanda: chi chiamavano “tappo” nella vostra classe? E nell’altra? così chiamavano me.

L’effetto della rivelazione fa scattare eventi ancora una volta da manuale: quella sorta di risentimento nei confronti di altri per una diversità (la statura) a cui è dato un valore di giudizio che emargina coinvolge molti del gruppo che nel quattordicenne vedono un loro compagno capace anche di utili abilità linguistiche e il bersaglio su cui sfogare una sorta di ostracismo diventa un altro. Comincia uno di quei due ragazzi “esperti” (quelli che con qualche atteggiamento di superiorità si erano avvicinati per ultimi) a chiedere ad O. come si traduce in iraniano “le tue carte sono false” da rivolgere al più piccolo iraniano che sta ancora giocando (e forse vincendo?).

La traduzione viene data, la frase viene ripetuta e il ragazzino iraniano risponde prima con un espressione corrucciata, poi sorride, come di fronte ad uno scherzo.

            Il fatto è che lo scherzo va avanti per più di dieci minuti e le frasi da tradurre in iraniano si fanno sempre più pesanti, sino a diventare insulti, sino a far sì che il ragazzino deriso da due più grandi e non sostenuto dagli altri prova a rispondere con altre espressioni nella sua lingua, prova a dare calci e poi se ne va.

Tornerà dopo altri dieci-quindici minuti con aria interrogativa e si siederà vicino agli altri in silenzio, apparentemente non visto, e dunque neppure rifiutato.

Inutile e forse sbagliato sarebbe chiedere che O. si schierasse a favore del più piccolo, dal momento che per lui era fondamentale e compensativo aver trovato un ruolo nel gruppo.

E gli adulti? Come esercitare il proprio ruolo in simili situazioni?

- i genitori che pure stavano lì nei pressi e che non hanno dato alcun segno di presenza, quando qualche voce arriverà dal proprio figlio sapranno tenere presente che quello è uno dei punti di vista ?

- l’insegnante, l’educatore, l’allenatore di un qualsiasi sport presteranno attenzione massima a queste dinamiche relazionali?

            L’episodio mi è apparso la conferma eclatante che certi fenomeni di emarginazione/esclusione, sia pure lievi e probabilmente dimenticati molto presto, originati da “presunti” elementi di difficoltà, da condizioni “avvertite” come penalizzanti indipendentemente dalla realtà oggettiva, possono essere “l’altra faccia” della solidarietà: accetto te e, dunque, escludo l’altro.

 

 

Cordialissimamente,

Giancarla Mandozzi

 

 

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