A PROPOSITO DEL RICONOSCIMENTO DEL COUNSELING


Ho pensato di condividere con voi un problema inerente alla nostra realtà professionale immaginando che diversi colleghi Counselor si possano trovare nella mia stessa situazione. Sono un dipendente del Comparto della Sanità Pubblica con contratto a tempo pieno ed indeterminato. Dal momento in cui mi sono diplomato Counselor  e dopo aver conseguito la specializzazione sulla coppia, mi sono attivato per poter esercitare la professione.  Ho inviato la richiesta alla mia azienda ospedaliera per richiedere il permesso di esercitare l’attività extra-ospedaliera.  Purtroppo essa è stata rigettata. Le motivazioni? Il non accoglimento è stato sottolineato attraverso l’ex articolo 53 del Dlgs 30/03/2001 n. 165 e s.m. dove viene evidenziato l’incompatibilità, cumulo d’impiego ed incarichi per il dipendente pubblico a tempo indeterminato ed a tempo pieno.  L’azienda comunica inoltre che il dipendente pubblico con le caratteristiche sopraindicate è assoggettato all’obbligo di esclusività disciplinato dagli articoli 60 e seguenti del D.P.R. 10/01/1957 n. 3 che vieta tra l’altro anche l’esercizio di attività professionale in maniera autonoma seppur occasionale come ho sottolineato nella domanda. Purtroppo è stata rigettata anche la richiesta di operare come consulente presso un’Associazione  poiché il lavoratore dipendente non deve risultare socio ed al massimo l’azienda stessa, in maniera esclusivamente discrezionale, può dare il permesso solo ed esclusivamente per una collaborazione di tipo totalmente gratuita ed occasionale.

Di fronte a questa soluzione resta il problema che l’ipotetica associazione dovrebbe accollarsi tutte le questioni di carattere fiscale come ad esempio fatture e ricevute ritenuta d’acconto in quanto il dipendente stesso non deve figurare in alcun modo. Consultando le normative vigente ho scoperto che, per esercitare un’attività non in concorrenza con l’azienda stessa, il dipendente deve richiedere il part-time al 50%. Secondo me, (e per altri colleghi che si trovato nella stessa situazione) questo è un vincolo discriminatorio che non permette di lavorare “alla luce del sole” correndo il rischio (da come si evince dai Contratti Collettivi Nazionali) di sanzioni disciplinari che portano alla risoluzione del rapporto di lavoro. Secondo me, dopo ben  quattro anni di Master (senza contare percorsi personali, seminari e work-shop a cui ho partecipato) ritengo che sto vivendo una situazione discriminante Perché devo esercitare la professione nascondendomi come “un topo da fogna” con i relativi rischi sopraindicati, mentre altre figure professionali soprattutto nel settore sanitario possono contemporaneamente lavorare in azienda, nel proprio studio privato ecc.? Sottolineando la mia esperienza in ambito sanitario, ritengo altresì che la figura del Counselor  deve essere riconosciuta al più presto nelle strutture pubbliche e private in quanto attraverso una formazione adeguata e riconosciuta a livello Europeo, ha acquisito gli strumenti professionali per esercitare nelle strutture ospedaliere e territoriali. Questo spazio deve essere occupato dalla nostra figura professionale per evitare il rischio di non poter  garantire un adeguato livello di assistenza e  di essere un danno per gli stessi operatori (burn-out e quant’altro) e per gli utenti.  Con questo articolo spero di sensibilizzare i colleghi Counselor in quanto ciò possa essere un inizio di un percorso contro questa assurda discriminazione e nella speranza che i principali Registri professionali (a proposito: a quando un registro unico?) possano fare la loro parte soprattutto a livello politico e legislativo soprattutto perché a livello Europeo godiamo di ben altra considerazione. Sono a disposizione per un eventuale raccolta di firme o per qualsiasi altre iniziative in merito. Grazie per l’attenzione.

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