OSSERVAZIONE: QUALI CERTEZZE METODOLOGICHE? Dubbi e riflessioni fra Jung e la fisica quantistica

Inviato da Nuccio Salis

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Che l’osservazione sia uno degli strumenti principali attraverso cui condurre efficacemente la relazione d’aiuto, è cosa ben risaputa, e numerosa letteratura viene prodotta in proposito. Imperdonabile anello mancante, nell’ambito della formazione universitaria delle professioni sociali ed educative, tale lacuna dovrà obbligatoriamente essere colmata dal momento in cui si fa esperienza, a proprie spese, della inconsistenza di equipaggiamento tecnico-metodologico, fornito dagli enti accademici.

La finestra riservata al procedimento osservativo rappresenta quella delicata fase di raccolta dati, che coincide nella pratica con una vera e propria procedura anamnestica, e che richiede un’accurata selezione delle informazioni rilevanti, ponendo non pochi problemi di natura epistemologica, filosofica ed operativa in genere.

 

Il dibattimento sui criteri e i processi dell’osservazione coinvolge da sempre, sostanzialmente, due differenti scuole di pensiero. Una di queste aderisce pressoché acriticamente ad un concetto deterministico della validazione del fenomeno, mediante procedura osservativa. Ovvero, secondo questo orientamento, è vero ciò che vedo, e la realtà viene semplicemente riconosciuta dal momento in cui cade sotto l’esperienza sensoria della tangibilità e dell’evidenza. Una logica hegeliana che bandisce alla radice qualunque interferenza di tipo mistico, metafisico o non interpretabile secondo i canoni di lettura di una scienza naturalistica. Secondo l’approccio in questione, dunque, ciò che conta è il rilevamento di variabili che possano essere sottoposte alla cruda oggettività dell’evento, in termini di caratteri manifesti, di modo da potervi applicare una descrizione condivisa, inconfutabile in quanto generalmente esperibile. Tale metodo, che soprattutto in Occidente, segna il confine spartiacque fra la cosiddetta scienza galileiana e quella a carattere dialettico, è quello a cui si ricorre quando si rende necessaria la replica di un fenomeno, e si strutturano quindi le condizioni di laboratorio, con l’auspicio di poter controllare ciò che si osserva, e ricavarne principi, teoremi e formule dimostrabili.

Questo modello, da una parte largamente meritorio per aver rimarcato la funzione essenziale della oggettività della dimostrabilità nella ricerca scientifica; condotto alle sue estreme conseguenze, ha anche funto come barriera riparatrice di fronte a fenomeni di natura ignota e non facilmente spiegabile. Questo rigetto, causa e conseguenza di un empirismo radicale nell’atteggiamento scientifico convenzionale, non rispecchia soltanto, a mio modo di vedere, una sorta di protezione della neutralità scientifica, ma paradossalmente sovverte proprio la vocazione intrinseca della stessa. Nel senso che una scienza che procede nel selezionare fra ciò che è degno di osservazione e ricerca e ciò che non lo è, soltanto sulla base di un paradigma concordato da una comune politica di parametri di indagine, ha già fallito il suo compito, perché mostra proprio in tal modo di cedere alle dominanti inclinazioni ideologiche del proprio tempo. Poche volte, purtroppo, si sente pronunciare o rievocare il saggio motto “fino a prova contraria”, che sarebbe tipica dello scienziato libero, aperto di mente, non colluso con nessun potere al di sopra di lui e che lo rende succube o dipendente. Più spesso, invece, si sente parlare di dogmi, assiomi, rifiuti aprioristici nel voler trattare o affrontare argomenti guardati con insufficienza, pressapochismo o se non addirittura bollati come dicerie, facezie surreali , superstizioni o materiale visionario. In pratica, tale atteggiamento non è altro che la paura di colui che non vuole guardare all’interno del cannocchiale, onde evitare il terrore di sentir scricchiolare quella cedevole e labile struttura delle proprie certezze e convinzioni; un sistema che, soprattutto nella realtà contemporanea che stiamo attraversando, si  confà sempre più in una nuova religione oscurantista, contro la quale la stessa scienza credeva di lottare.

È bene mettere in evidenza tali paradossi, a mio inadoperabile avviso, perché ogni volta che guardiamo ad uno strumento operativo, e al modo con cui ci viene presentato, il rischio è quello di smarrire quella necessaria criticità che invece è proprio tipica di una formazione umanistica, che ammette solo la problematizzazione di un oggetto di studio, più che mai se all’interno di un processo in cui assume una valenza anche pratico-operativa, e che quindi oltre che alla dialettica, sarà sottoposto alla prova ed alla validazione empirica. La differenza, però, rispetto al fideismo positivista, è che tale validazione acclude principi e concetti quali la relatività contestuale, l’arbitrarietà dell’utilizzo della risorsa operativa, i fattori sfuggenti al controllo cosciente e alla misurazione standardizzata. Ci si arrende, in un certo senso, alla marginalità incontrollabile del fenomeno, specie se di natura interpersonale, facente parte dei complessi processi della crescita del soggetto umano. D’altra parte, non è nemmeno auspicabile un abbandono totale all’imponderabilità del fenomeno “uomo”, poiché ciò costituirebbe, insieme, una rinuncia all’uso di strumenti di rilevazione dati, e una resa al primato dell’imprevedibilità, considerata in tal caso la sola ed unica variabile pensabile. Ci troveremo cioè di fronte ad una doppia sconfitta: cioè su un piano sia scientifico sia filosofico. Dovremo invece pensare comunque a come agire, senza cadere dentro una stagnante paralisi autoindotta.

Dunque cosa si deve o si dovrebbe fare? Una equa contromisura potrebbe consistere nel prendere atto della valenza illusoria di ciò che chiamiamo realtà, e che essa è un prodotto delle nostre arbitrarie strutture concettuali, e che al tempo stesso essa pur si manifesta, e che forma e sostanza, seppur limitatamente al nostro orizzonte del qui ed ora, possono essere esperite, misurate e collocate dentro un contenitore di significati, da considerarsi certamente incompleto e parziale. Forse è questo un modo saggio per evitare il rischio di imbrigliamento nel dogma o nella illusoria certezza di avere chiavi di lettura esaustive e di foggia universale. E al tempo stesso anche una strategia di avvaloramento, relativo e non superbo, della ricerca e della metodologia scientifica in merito alla regolazione dell’intervento d’aiuto nella relazione interpersonale.

È opinione personale il bisogno di un confronto ininterrotto su questo tema, dal momento che i modelli dell’osservazione, che includono varie tipologie con annesse griglie di raccolta dati di vari livelli, costituiscono un tipo di intervento che non si esaurisce mai, lungo il percorso del trattamento nella relazione supportiva.

Credo perciò sia importante cogliere quegli aspetti controversi che spesso generano dubbio, dibattito, ipotesi solutorie e che danno vivacità all’esperienza professionale, affinché giammai diventi una mera procedura tecnica di sequenze rituali.

Dunque, per dimostrarci come non possiamo ciecamente attribuire massima affidabilità alla procedura osservativa, possiamo prendere atto di come lo strumento-persona (che coincide con noi stessi) sia il primo “utensile” agente,  coinvolto nel legame che si sviluppa all’interno del setting, sia nel caso verso il singolo o verso un gruppo.

Prima condizione irrinunciabile è farsi sempre presente che tutto ciò che osserviamo è inevitabilmente filtrato, valutato alla luce (o al buio, in certi casi) delle nostre personali abitudini, valori e aspettative correlate, seppur con tutto lo sforzo di mettere in temporaneo stand-by i nostri concetti aprioristici. In pratica, il primo passo da fare consisterebbe nel non sovrastimare, anche se allenate, le nostre abilità di sospensione e decentramento dello sguardo giudicante. Sé è possibile, infatti, forzatamente, tenerlo abbastanza a bada, poca cosa può farsi invece per i movimenti del pathòs e delle sue eventuali rumorose risonanze.

Secondo principio da tenere nella massima considerazione, riguarda quel principio di interferenza che si esprime nella relazione fra osservatore e osservato, e che ha inficiato tutti gli accorgimenti per una sana procedura di osservazione e raccolta dati. Nel senso che, se anche tale procedura rispetta tutte le condizioni secondo cui ricade dentro i parametri di oggettività e neutralità, non avrebbe fatto altro che cogliere aspetti fenomenici che hanno assunto tali caratteristiche per via della presenza dell’osservatore. È esattamente ciò che ci spiega la fisica quantistica, dimostrando come particelle di uno stesso corpo, una volta separate, disegnano motivi sincronizzati, riproducendo le stesse risposte anche se una sola di esse viene sollecitata. Perciò, nemmeno se per ipotesi osservassimo il fenomeno a distanza, potremo esimerci e salvaguardarci dalla misteriosa matematica che ci concatena vincendo i vincoli della materia e dello spazio-tempo.

Ricordiamoci, giusto per introdurre qualche spiegazione esemplificativa, i comportamenti elettivi di alcune persone o quello di alcuni animali selvatici disturbati o abituati all’interazione con gli umani. L’interazione con l’altro modifica il comportamento. Questa è una certezza facilmente sperimentabile nella quotidianità. Eppure, proprio perché si evince in modo così scontato, sembra che a volte la si trascuri, e ciò induce a mettere sullo stesso piano i contenuti informativi della propria osservazione, seppur condotta col massimo rigore, con l’attribuzione di carattere di realtà al fenomeno dato. A distruggere tale illusione, metto in evidenza, in modo letterale, una frase di Carl Gustav Jung:

 

Se l’evento viene osservato senza limitazioni sperimentali , può sorgere nell’osservatore un certo stato emotivo che modifica spazio e tempo nel senso d’una contrazione”(cfr. C. G. Jung, “La sincronicità”, p. 74)

 

È l’impatto emotivo sull’evento, secondo Jung, che sarebbe responsabile di un fenomeno che egli cita come abaissement mental, riferendosi a un assottigliamento della forza cosciente, che cederebbe a quel punto il suo ruolo di controllo all’inconscio, permettendo a quest’ultimo di percepire le cose relativizzando lo spazio e il tempo; condizione necessaria, secondo il noto ricercatore svizzero, ad aprire al fenomeno della sincronicità, cioè a quel legame acausale ma non per questo accidentale, fra stato psichico ed evento corrispettivo.

 Alla luce della portata di tali scoperte e riflessioni, per la verità molto più antiche di quanto non si voglia credere, la dimensione dell’incontro con l’altro non si può esaurire all’interno di una percezione occasionale di un incontro, ma diventa una vera cornice quantica, assumendo una significazione di tipo metafisico, che ci riguarda direttamente, perché ci rimanda qualcosa, presentandosi perciò come ghiotta occasione per compiere l’esperienza dell’esplorarci mentre esploriamo, comprendendo fino in fondo il senso del rispecchiamento con ciò che solo apparentemente è “altro da noi”, e che invece è “insieme a noi”, congiunto dalle trame di un Tutto che ci contiene e che parzialmente ci abita.

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