BULLISMO CHE FARE? Approccio educativo e strumenti di lettura transazionale

Inviato da Nuccio Salis

bullo1. Quella fra il bullo e la vittima è prima di tutto una relazione. Ed è una relazione talmente stretta che ci impone, come osservatori ed operatori nell’ambito sociale ed educativo, di programmare interventi che puntino al fronteggiamento del fenomeno mediante un approccio a doppio focus: intendo dire che tale relazione, evidentemente disturbata e disfunzionale, chiede di essere analizzata ed affrontata sulla base della complementarietà che giustifica e perpetua il legame fra molestatore e colui che lo subisce.
Sembra piuttosto scontato affermare che, dal momento che si parla di bullo, è inevitabile che si parli anche della vittima, e tuttavia tenere una pari considerazione di ambo le parti coinvolte dentro tale processo non sempre si rivela invece un’operazione così automatica.
L’attenzione e l’intervento che ne consegue possono risentire di orientamenti personali, e questi possono interferire in modo tale da far perdere facilmente la visione relazionale e contestuale dentro cui si dovrebbe a mio avviso inquadrare il fenomeno, di modo da prospettarlo all’interno di una chiave di lettura che favorisca una uguale presa in carico educativa di entrambi i soggetti coinvolti, nelle loro rispettive posizioni.


Ad esempio, per riscontro personale ho dovuto constatare che si possono far prevalere eccessivi sentimenti di paternalismo e iperprotezione pietistica nei confronti della vittima, e ciò può portare a prendersi carico esclusivamente della vittima, non offrendole in fin dei conti validi strumenti di gestione del pericolo e di autodifesa. Inoltre, se trascinati da un senso di eroismo salvifico, si potrebbe tendere ad infliggere al malintenzionato una esemplare e dura punizione senza valutarne anche una eventuale efficacia riabilitativa.
Non possiamo sottovalutare, per giunta, che esistono anche atteggiamenti che, se non legittimano visibilmente l’atto intimidatorio o violento, tendono comunque a sottodimensionarlo, come per la paura di prendere atto di un contesto di realtà che è arrivato ad essere generatore di tali eventi. Fra questi atteggiamenti può essere riscontrata l’attitudine a colpevolizzare la vittima, rinforzandone così, fra l’altro, una struttura psicologica spesso già disegnata attraverso un’immagine di se di perdente o indegna di amore.

 

2. In pratica, l’approccio separatista non potrebbe rivelarsi efficace, poiché isola gli elementi e sottostima la dinamica principale che da luogo al concatenamento sincronico che mobilita il gioco relazionale fra bullo e vittima, e tale fattore è, per l’appunto, la relazione. È dunque l’aspetto processuale del rapporto che merita di essere indagato, e che aspetta interventi che superano il dualismo viziato da personali attitudini ideologiche o interpolazioni di natura affettiva.
Ciò che occorre fare in primissima battuta potrebbe consistere nell’applicare il buon vecchio e collaudato atteggiamento dell’epochè, ovvero compiere lo sforzo di non valutare sul piano morale le rispettive parti coinvolte, ed accantonare temporaneamente il proprio sistema interno di credenze e convinzioni. Successivamente, raggiunta una potenziale visione chiara del fenomeno, si potrebbe procedere con l’analizzare schematicamente il fenomeno, rilevandone sia dati oggettivi (frequenza, modalità, tempi e luoghi) che dati soggettivi (vissuti e interpretazioni in riferimento ai soggetti attivamente coinvolti). Il terzo passo dovrebbe consistere nell’applicare sia i giusti e legittimi provvedimenti previsti sul versante disciplinare (aspetto normativo), sia al tempo stesso prendere in carico le parti direttamente interessate e protagoniste dell’accadimento.
Ed in questa sede dobbiamo avvalerci di strumenti di lettura e comprensione che ci aiutino a identificare la natura del fenomeno per come si presenta, privata cioè delle soggettive proiezioni frutto di aspettative, abitudini e personalissime teorie implicite.
Se guardiamo con interesse alle teorie dei giochi transazionali di Eric Berne, per esempio, troviamo ampiamente dimostrato che tutte le relazioni che possiamo generare condividono un aspetto comune: la possibilità di ricevere una qualche forma di attenzione da una controparte (partnership). E poco importa se la considerazione ricevuta è insufficiente alle aspettative per quantità o qualità, o addirittura se è squalificante; poiché ciò che conta è attestare la propria presenza e visibilità, prevenendo il terrore di essere ignorati, non ascoltati e di non attrarre nessun interesse da parte degli altri.
Su questo assunto, a mio semplice avviso, dovrebbero fondarsi le premesse per un’analisi del fenomeno, che tenderà inevitabilmente a demolire parecchie ingenue certezze, in merito soprattutto al guardare a tale evento secondo una prospettiva monolitica e a senso unico. Voglio intendere che probabilmente è da considerare limitato il fatto di concepire esclusivamente che sia il bullo a cercare la vittima.

 

3. Proviamo ad applicare lo schema di Stephen Karpman, psicologo transazionale che negli anni Sessanta ideò un modello di lettura sul contatto e lo scambio interpersonale dei ruoli sociali, noto come triangolo drammatico. In esso troviamo il Persecutore, il Salvatore e la Vittima. Il bullo è certamente riconoscibile all’interno del profilo del Persecutore: caratteristiche comportamentali, personologiche e posizione esistenziale (Io sono OK, Tu non sei OK, in questo caso) lo configurano come colui che si impone come aguzzino nei confronti della sua vittima prescelta. Egli esiste soltanto con quell’abito, avere dunque bisogno di una vittima è una sua necessità vitale. Se non è Persecutore non è niente, cioè non ha un’identità che gli rimanda una giustificazione ad esistere, sarebbe psicologicamente defunto.
Veniamo alla vittima. In questo caso non ci sono equivoci: la vittima è la Vittima. La sua posizione esistenziale (Io non sono OK, Tu sei OK) la rende complementare al Persecutore, e per analogia gli somiglia dal punto di vista motivazionale: essa deve cioè rinfrancarsi riguadagnando il suo ruolo e la sua immagine personale e sociale, quindi ha un impellente e continuo bisogno di un Persecutore. Si incontrano, il gioco è fatto. La Vittima, tuttavia, potrebbe giocare con doppiezza, o magari, chissà, imparare finanche ad avere un improvviso sussulto di stima di se, e denunciare il colpevole che la maltratta e la opprime. Si ha dunque necessità di una terza figura, ed ecco il Salvatore, colui che, o spontaneamente interpellato dalla Vittima oppure testimone o conoscente del fatto, interviene per sanare la situazione. Egli punisce il colpevole, e può infliggergli anche una restituzione di trattamento al pari della Vittima (ormai ex). Ecco il ribaltamento dei ruoli: il Salvatore è diventato Persecutore, ed il Persecutore è diventato Vittima. La Vittima potrebbe infierire sul suo ex aguzzino aizzando il Persecutore ad essere più truce. Anche la Vittima diventa Persecutrice.
Tale aspetto richiede una gestione davvero delicata e responsabile del fenomeno.

 

4. Riprendo ora il nocciolo del tema: il bullo cerca la vittima almeno quanto la vittima cerca il bullo.
Ciò significa forse che la vittima se la va cercando e che quindi sarebbe addirittura colpa sua? Non sarebbe questo il piano di ragionamento che ci aiuterebbe a comprendere, poiché in questo caso prevarrebbero le nostre credenze e il nostro personale serbatoio di idee, vissuti e convinzioni. Ci perderemo cioè il primo passo, assolutamente necessario, che riguarda un provvisorio abbandono del sistema interno dei giudizi. Quindi, solo una volta messo in stand-by il nostro monocolo e la sua lente deformante, potremo superare quelle riserve che ci impediscono di ricercare una risposta scientificamente corretta e priva di colori ideologici.
Allora, all’interno di una visione scevra di preconcetti, potremo innanzitutto concettualizzare che bullo e vittima costruiscono un rapporto di reciproco interesse, che consiste in un vicendevole appagamento sull’idea di se e sulla rappresentazione della realtà. L’incontro fra bullo e vittima rende ad entrambi un importante servizio sul piano psicologico: ciascuno rafforza le proprie convinzioni su di se e sul mondo, proprio attraverso un alter ego speculare percepito come nemico.
Il bullo è vittima della sua rigidità, tanto quanto la vittima è persecutrice di se stessa mediante idee svalutanti di se. Paradossale, vero?
Offrire un sostegno efficace, dunque, dovrebbe significare accogliere senza riserve sia il bullo che la vittima, poiché questo piano di lettura li rende entrambi meritevoli di ricevere un aiuto responsabile e una matura considerazione. Un piano di aiuto efficace potrebbe allora consistere nel guidare entrambe le parti coinvolte a rimodellare il proprio orizzonte interpretativo di se e dei fatti che circondano la loro esistenza. Una nuova visione di mondo, più aperta e consapevole, corroborata da esperienze alternative a una routine che di norma perpetua e rafforza le percezioni distorte e limitate su di se e di conseguenza sulle modalità di edificare rapporti interpersonali.
In pratica, e ciò non è assolutamente facile, e d’altra parte se lo fosse non sarebbe oggetto d’argomento a rilevanza educativa e sociale, ciò che resta da fare è dare avvio a un percorso di riprogrammazione di se, fondato anche da piccole tappe che diano almeno il segno di un impegno personale verso il cambiamento, di un investimento di se dentro una dimensione che non genera più disagio e inautenticità.
Concretamente, si possono aiutare sia il bullo che la vittima ad una progressiva ristrutturazione nel loro modo di affrontare e percepire gli eventi, in relazione soprattutto ai loro vissuti. Sarebbe molto importante pensare anzitutto a un ambiente sociale che intanto promuova scambi comunicativi basati sulla cordialità, sul rispetto, in un clima genuino e non certo artificioso, dove viene promossa e premiata la capacità al contatto empatico, alla dimensione solidale e partecipativa.

 

5. Ricapitolando, in che modo aiutare il bullo e quali richieste gli si possono rivolgere, all’interno di un programma educativo di rimodellamento?
I punti fermi da seguire e monitorare, e sviluppare attraverso un vero e proprio training guidato, con l’immancabile sostegno dei vari contesti, potrebbe essere il seguente:
a). Usa un linguaggio cortese e rispettoso
b). Cerca di metterti nei panni degli altri e di comprenderne vissuti e punti di vista
c). Difendi e aiuta i ragazzi in difficoltà
d). In caso di disaccordo cerca una mediazione con gli strumenti che ti stanno insegnando
e). Sottolinea i comportamenti negativi degli altri compagni
f). Rifletti sempre sulle conseguenze dei tuoi comportamenti
Le parti spettanti invece alla vittima, sempre all’interno di un itinerario di rimodulazione personale, potrebbero essere elencati in forma di istruzioni, come segue:
a). Impara a non lanciare sfide, né consapevolmente e né involontariamente
b). Non sottovalutare mai l’evento del subire prepotenze
c). Cerca di saldare legami di alleanza e amicizia con altri compagni
d). Parla e informa sempre gli adulti quando subisci minacce, lesioni e molestie di qualunque forma
e). Frequenta soltanto spazi che non siano isolati e lontani da occhi indiscreti

 

6. Certamente, la complessità e la difficoltà che tale fenomeno impone a noi pedagogisti, counselor o educatori a vario titolo, è tale che davvero occorre pensare che oltre ad avvalerci di utili ed efficaci strumenti di comprensione, prevenzione, fronteggiamento e contenimento, il nostro impegno verte soprattutto nell’offrire esempi di competenze relazionali, empatia, riconoscimento dell’errore, assunzione di responsabilità; tutti criteri di un vivere sociale che spesso risulta invece deframmentato, confuso e incoerente, se non addirittura rovesciato e quindi di cattivo esempio, nei contesti in cui gli adulti co-abitano, dando adito a comportamenti che sono l’esatto specchio di una società che miete bulli e nutre vittime sull’altare in cui quotidianamente fomenta e idolatra la violenza con raccapricciante orgasmo.
 

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