MEGLIO MALE ACCOMPAGNATO CHE SOLO: le apollinee carezze da branco

Inviato da Nuccio Salis

soloIl filosofo statunitense Napoleon Hill elencò, durante gli anni Trenta, le sei paure più arcaiche e comuni dell’essere umano. Fra queste, immancabile, non potette certo omettere di annoverare la paura di perdere l’affetto e l’amore delle persone care ed alle quali ci si sente più legati.
Sembrerebbe sia proprio questa la più grande paura maggiormente diffusa, e che tiene facilmente in condizioni di vigilanza, tensione, gelosia o attesa, la maggior parte delle persone. Questa antichissima forma di paura è legata alla prima di tutte delle necessità: quella di essere accudito, amato, preso in cura. Oggetto di angosce abbandoniche precoci è appunto l’esperienza che ciascun bambino si porta dentro, in riferimento all’eventuale ed orribile proposito di essere rigettati e abbandonati dalla fonte d’amore. È questa spaventosa prospettiva che giustifica la richiesta decisamente più frequente e continua circa la rassicurazione di essere sostenuti, accolti, accettati, protetti. La perdita ed il distacco di ogni legame affettivo, anche in età adulta, non può non far riaffiorare frammenti di un sentimento così recondito e profondo. Tale intima esperienza si coniuga ad un’esigenza primordiale, e la paura che vi si accosta si sviluppa in riferimento a immagini interiori di perdita e sensazioni di abbandono ivi associate.


Mi chiedo, a volte, qual è nella mia esperienza professionale la cosa che mi è più difficile da insegnare a un utente? Per me è la capacità di far capire che il suo valore prescinde dal numero degli amici o presunti tali, contatti e conoscenti che fanno parte della sua vita. Esiste una diffusa credenza secondo cui ciascuno percepisce spesso il valore di se sulla base dell’accettazione rimandata dal mondo sociale, letta quasi sempre in termini quantitativi, soprattutto dalle ultimissime generazioni. È la popolarità a legittimare all’esistenza. Si esiste se si è visibili, chiacchierati, o se si diventa bersaglio e indirizzo dell’attenzione altrui. E non importa il motivo per cui si fa parlare di se. Il terrore inenarrabile che si prova soltanto al pensiero di essere anonimi, marginali o dimenticati, fa superare qualunque barriera normativa o inibitoria. Il bisogno di produrre gesta per alimentare l’interesse altrui viene considerato prioritario. Provocare e sfidare le regole sociali condivise diventa così un modo per guadagnarsi un’identità che non è considerata tale se non suscita reazioni nella “rete” degli attori sociali. “Io sono” se qualcuno si accorge di me, esisto a patto che il mio prossimo conosca che esisto. Lasciare un anonimo segno su un muro, una scritta su una statua, o prodigarsi in atti di teppismo e vandalismo, non basta più. La società esige condivisione. L’avvento di nuove e sofisticate tecnologie multimediali ha concesso tale possibilità, declinandone un uso inappropriato rispetto alle enormi potenzialità in termini comunicativi ed educativi.

Anonimo è diventato sinonimo di insignificante, e non visibile significa concettualmente non esistente. E dal momento che la visibilità è spesso espressa in una forma indifferenziata, dentro una immensa e conforme pappa omologata ed omologante, i comportamenti di richiamo si sono universalizzati, esattamente come il pianto e le urla del neonato.
Ora, ragazzi e adulti, calamitano l’attenzione altrui sostituendo a pianti ed urla altre strategie comportamentali, per aderire all’imperativo di essere pubblici e di godere di visibilità personale. Ed ecco ragazzini riprendere in video le loro smargiassate per postarle in rete, le ragazzine fare le cubiste spogliarelliste a 12 anni, gli adulti violare con prepotenza il codice della strada, per esempio, ed il tutto per sfuggire alla più orribile e raccapricciante delle paure: quella di non essere noti. Essere impopolare, in pratica, si determina come paradosso. Se sei, non puoi essere impopolare, e se sei impopolare sei pure “sfigato”. Insomma, ha più valore chi colleziona più contatti su facebook.

Questa è una regressione dal punto di vista della coscienza. Un livello involutivo verso la non percezione e consapevolezza di se. Si tratta in buona sostanza della perdita dell’unicum, che apre come constatabile conseguenza la strada al disagio interiore. Un principium collettivizzazionis (così potrebbe essere battezzato un processo di omologazione ad ampio regime), prende il posto dell’individuazione. Diventare indifferenziati nel gregge diventa la strategia per non essere tagliati fuori, per non percepirsi out-group, anche se l’espressione group sarebbe la meno appropriata per definire un aggregazione di elementi la cui alleanza relazionale non punta in tal caso alla qualità e alla reciprocità matura, ma a un’opportunità di protezione della propria paura di rimanere soli ed isolati.

Un approccio di tipo analitico-transazionale ci aiuterebbe a capire le ragioni e la natura di un tale processo. Partiamo sempre dallo stesso punto: l’angoscia della perdita orienta verso un morboso attaccamento alla premurosa fonte d’amore dispensatrice di cure. La struttura relazionale di cui nessun individuo può fare a meno, dunque, è quella relativa al legame affettivo. Tralasciando le ipotesi sull’opportunismo egocentrico che porterebbe a risucchiare amore, più che ad offrirlo, possiamo comunque concludere che il contenitore socio-relazionale da cui si cerca maggiormente di rifuggire è l’esclusività del rapporto con se stessi, altrimenti detta solitudine.
L’isolamento risulta, quindi, in genere, la struttura del tempo che mette più a disagio; per quale motivo? Un ipotesi intuitiva potrebbe riferirsi alla mancanza di fonte di carezze. Le carezze sono forme di attenzione, al di la della loro qualità, conseguenza o intenzione. Secondo il paradigma transazionale, in breve, se qualcuno ci insulta, ci minaccia, o usa con noi violenza fisica, ci sta comunque facendo una carezza, perché ci mostra la sua attenzione; ci rivolge e ci dedica il suo interesse. Seppur in modo disfunzionale, rompe la cornice spazio-temporale dell’isolamento, introducendo vita, significato e valore esperienziale. Dentro questo costrutto, l’essere umano riduce tutta la sua complessità biopsicosociospirituale a un comportamento da repertorio meccanico-riflesso, che altro non è che un automatismo in risposta al pericolo atavico del rimanere soli ed isolati dal branco. In questo stato, a cosa serve avere un linguaggio complesso? Ecco la ragione per cui diventa sempre meno importante parlare bene, scrivere correttamente, esprimersi in modo chiaro e magari anche cortese.

Un bell’ “unga-chaca” al momento giusto potrebbe essere il verso gutturale dell’uomo fra qualche decennio. Gli accoliti del branco di riferimento accorreranno, sempre che un opportunismo umano troppo umano non abbia alla fine prevalso.
Quel che spesso non si capisce è che invece è un forte segno distinto di maturità superare la horror solitudo, come la chiamo io, riferendomi ad una generale e diffusa avversione per la solitudine, mediante concetti, vissuti e percezioni che non concedono alternative aperture semantiche. Tale condizione sembra caratterizzare tipicamente chi è cognitivamente povero, creativamente arido e spiritualmente indifferente. Uno dei segni virtuosi dell’uomo, invece, lo si riconosce anche nella capacità di gestire costruttivamente lo spazio della propria solitudine. Ma questa espressione evoca ancora fantasmi angosciosi, dimenticandosi magari che la solitudine è semplicemente il diritto a godere di uno spazio-tempo psichico e strutturale che rafforzi l’autonomia dell’individuo rilanciandone le abilità creative.


Spostarsi insomma dalla horror solitudo alla beata solitudo. Condizione da cui soprattutto se ne evincono e si vivono soprattutto gli agi ed i benefici. Solitudine, infatti, non isolamento, come la descrive Eric Berne indicandone la prima forma di strutturazione del tempo.
Ma l’animale apollineo, concentrato sul nascondersi a se stesso vestendo le forme artefatte del vivere sociale, non si concede piacevolmente la sua auto-destrutturazione. Quali sono le risorse principali che può invece usare a questo proposito?
Provo ad indicarne 4:

_ Immaginazione: mezzo estremamente efficace di creazione, essa può attingere sia dalle fantasie oniriche che da quelle propriamente progettuali e maggiormente legate ai dati di realtà. Mediante l’immaginazione è possibile fare il punto della situazione concedendosi la libertà di inventare molteplici scenari possibili, consapevoli del potere del pensiero unito alla volontà costruttiva che opera.
_ Silenzio: il silenzio è una potente risorsa contemplativa, in grado di allontanare il rumore interno, oltre che quello esterno, aprendo la via della meditazione, della preghiera, dell’esperienza del sentirsi vibranti in armonia con l’Universo.
_ Rigenerazione-autocentratura: l’impiego di una sana attitudine a decondizionarsi dai rumori di fondo, unitamente all’amico silenzio, porta a rifocalizzarsi su di se, riflettendo sul recupero del proprio cammino progettuale. Si può essere protagonisti di una ricentratura che ci obbliga a smascherarci, a darci prova della nostra autenticità. Essa può bonificarci dalle attaccature alle etichette sociali, imparando a disidentificarci dalle proiezioni mentali delle persone con cui entriamo in contatto.
Ci si può porre di fronte a se stessi, chiedendosi spontaneamente: A che punto sono? Che percorso sto tracciando? È giusto? Posso cambiare?
Generare nuove domande è un modo per aprire un ventaglio di opzioni e possibilità in più. Forse un modo per non avere bisogno del counselor!
_ Creatività: si può decidere di utilizzare lo spazio-tempo della beata solitudo sia nel disimpegno concreto, e si può anche scegliere di riempire tale struttura dando piena espressione alle proprie attitudini, ricadenti in qualunque campo o disciplina si immagini.

È molto importante a mio avviso cercare di riscattare ciascun individuo consentendogli di passare soprattutto da se stesso. D’altronde, la gestione costruttiva della propria solitudine è la prova della propria indipendenza, una ragguardevole protezione contro i rischi di dipendere dagli altri, dai loro giudizi, dalle loro mode, dalle loro prigioni concettuali.
Si tratta in pratica di sfidare l’impopolarità ed abbracciare il rischio di essere anche inaccettati ma se stessi, scoprendo l’impagabile guadagno di non pagare il prezzo della dipendenza e della cecità interiore che porta a mortificarsi nutrendosi esclusivamente delle attenzioni altrui.
La differenza fra questi due stili personologici rappresenta a mio avviso una decisa frontiera nella distinzione fra soggetto maturo e soggetto immaturo.
Sotto l’aspetto dell’intervento si può decidere di partire dall’assertività, dall’autostima, dall’autodirezione motivazionale; ciò che conta è l’obiettivo complessivo culminante: vivere la piena soddisfazione di realizzare se stessi, apprezzando e valorizzando per fini costruttivi la propria unicità.

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