STO DAVVERO SCEGLIENDO IO LA MIA VITA? Percorsi e riflessioni sui modelli copionali

Inviato da Nuccio Salis

trainspotting1. Ciascuno di noi desidera procedere nel cammino della propria esistenza seguendo determinate rotte, meglio se sulla base di valori ed obiettivi programmati in piena e libera autonomia. Non tutti, naturalmente, a seguito di una diramazione complessa di ragioni, riescono a raggiungere una totale pienezza ed un completo controllo nell’indicare a se stessi le motivazioni delle proprie scelte. Ed anche questo passo, fra l’altro, non è del tutto sufficiente se dovessimo pensare di pianificare una meta e di perseguirla coll’impegno di realizzarla effettivamente, poterne realmente godere e trarne un beneficio autentico, misurabile ed appagante. Questo perché dopo aver selezionato l’opzione più accreditata dal nostro sistema di valori e convinzioni, ci resterebbe di transitare alla parte operativa; compito che può richiedere sforzi vissuti con fatica, scoraggiamento, con una percezione dei costi tale da far desistere, scoraggiati rispetto all’impresa che ci si è posti in precedenza.

 

Inoltre, tutto sembra ulteriormente complicarsi dal momento che si rischia di procedere spesso secondo un piano di vita che, se apparentemente risulta prescelto secondo personali criteri e coordinate congrue al modello esistenziale che pensiamo di perseguire consapevolmente, si prepara invece ad effettuare una sorta di inatteso e magari spiacevole “colpo di scena”, in risposta ad una decisione arcaica assunta durante il nostro rapporto con il primo ambiente di accoglimento. Certamente il peso di questa teoria consiste nel far sentire l’essere umano impotente, in balia di eventi non controllabili, ed in poche parole egli tenderebbe a non accettarla, poiché si deve spesso constatare che quando un paradigma sposta o destabilizza la struttura delle convinzioni interne, maturate dopo un lungo periodo di abitudini e di irrigidimento cognitivo, il soggetto umano rigetta tutto ciò che lo obbliga a cambiare e rimettersi in discussione, perché prevale la più grande malattia di tutti i secoli: l’ossessione per il controllo. Se qualcosa non la si può gestire, perché risulta incompatibile con la consueta attitudine percettiva, allora dovrò essere in qualche modo svalutata, affinchè non modifichi il corpus delle generali rappresentazioni interne circa l’idea di noi, del mondo, degli altri e della vita.

Eppure, uno sforzo verso l’accettazione della nostra complessità e delle numerose possibilità di agguantare un percorso di vita mai immaginato prima, potrebbe promuovere proprio nel dubbio quella risorsa fondamentale che ci aiuterebbe a decentrarci da una visione unilaterale del mondo: la nostra!

Questo, inoltre, ci farebbe guadagnare sul piano della consapevolezza interiore, dal momento che se ci formulassimo per esempio la domanda: “sto scegliendo io la mia vita?”, per rimanere pertinenti al tema che propongo, potremo darci una grossa mano nel conquistare una lucida e maggiormente approfondita visione sul nostro percorso, sulla nostra direzione e di conseguenza sulle modalità più funzionali che potremo adottare per dirigerci verso una essenziale presa di coscienza che ci eleverebbe ad un piano di valore, proteggendoci dal creare a nostra stessa insaputa circostanze per infliggerci sofferenze (divorzi, guai giudiziari, suicidi p.e.).

Prendere consapevolezza del proprio piano di vita interno, redatto sulla base di sfuggevoli quanto marcati comandi stigmatizzanti appresi ed interiorizzati nella relazione socio-affettiva con le figure di accudimento primario, significherebbe lavorare sul piano della tutela di se e della propria salute, assumendo decisioni e responsabilità che potrebbero farci uscire dalla gabbia dorata di attribuzioni indotte dall’esterno, e mediante le quali abbiamo vestito abiti e ruoli sociali che potremo tardivamente scoprire non essere consoni alla nostra natura, alla nostra vera ragione per la quale siamo venuti al mondo, insomma declinati rispetto allo scopo, o alla mission, della nostra esistenza.

Il margine di ridecisionalità e risveglio che è offerto a ciascuno è dato dalla reale credenza rispetto alla possibilità del cambiamento. Si tratta cioè di una concreta aderenza ad una matrice antropologica ed umanistica in grado di attribuire all’individuo il diritto, oltre che la possibilità, del riscatto e di un nuovo avvento di se. Naturalmente ciascun soggetto rappresenta un caso a se, con tutta la peculiarità della sua storia, della forza più o meno marcata dei condizionamenti e della qualità residua della controforza che ne costituisce la principale ipotesi di rinascita.

 

2. Vediamo un po’ quali possono essere le direzioni più inflazionate, a seguito di registrazioni introiettate che lavorano sulla base di un ricatto emozionale; ovvero l’individuo sente che può e deve esistere dal momento che aderisce e sottoscrive tali comandi, proprio come fossero impulsi, e la risposta del soggetto si esplica con un certo sconcertante automatismo:

 

_”Non credo tu ne sia capace”: chi ha conservato nel corso del tempo questo comando interno, di base genitoriale, si capisce, si è impegnato a vivere accomodandosi tutte le volte, o nella maggior parte delle più importanti circostanze, sul ricatto affettivo di questa torturoide imposizione, la quale potrebbe essere tradotta nella semplice formula “se riuscirai in qualcosa smetterò di amarti”. Il leit-motiv conduttore di ciascuna analisi è esattamente questo. L’individuo sente qualcosa che non sente, effettivamente, e che a livello consapevole non sarebbe in grado di riconoscere o decodificare, tuttavia egli agisce in tutta ossequiosa risposta a questo “sottofondo emozionale”, scegliendo di fallire o rimandare ad libitum le sue scelte, bloccandosi in una perpetua paralisi di non decisione. Altrimenti, il mondo smetterà di fornirgli attenzioni. Così facendo egli potrà qualificarsi come lo sgabello protesico di una qualche vittima diventata persecutrice.

Come poter aiutare una persona congelata in questa assurda condizione, mi chiedo? Penso che potrebbe essere favorevole, con il suo volenteroso concorso, lavorare sull’immagine di se come avente valore, meritevole di successi, e soprattutto di crearne e verificarne le occasioni, al fine di rendersi conto di come il pericolo legato alla perdita del riconoscimento sia soltanto una fantasiosa immaginazione.

 

_ “Insisti, hai voluto la bicicletta, ora pedala!”: chi vive sotto l’incombenza perenne di tale comandamento, che si innesca ogni qualvolta ci si trova di fronte al dover prendere decisioni, non sentirà di potersi permettere di fermarsi a riflettere e ponderare ogni mossa. Sceglierà anche a costo di non scegliere, magari accettando un’area di rischio alquanto azzardata, pur di scappare dalla morsa ricattatoria di tale comando che in sostanza lo induce a non arrendersi, a riprovarci, e non con nuovi mezzi, ma come mossa fine a se stessa, autoalimentata dal proprio meccanismo fissatorio.

In questo caso, un intervento di aiuto efficace potrebbe essere modulato nel far acquistare all’individuo la capacità di gestire e programmare il tempo, concedendosi la possibilità ed il permesso interno di costruirsi pause rigenerative e costruttive per le proprie condotte decisionali.

 

_”Sii giusto, prima il dovere poi il piacere”: motivo ineccepibile dal punto di vista educativo, fermo restando che la sua eccessiva rigidità potrebbe generare classi di personalità ritualistiche-ossessive, ingessate nelle proprie sequenze routinarie, così fragili da poter perdere il controllo al più esiguo presentimento di incertezza. Il soggetto è così consegnato ad una sensazione perenne di instabilità e colpa per il mancato rispetto di tale principio, fondatore circa il significato sostanziale della sua stessa vita. L’esistenza viene vincolata alla condizione del rispetto della sequenza dovere-piacere, e questa può essere percepita, come se stessa, dignitosa e decorosa soltanto a patto che venga rispettata tale legge. È un principio ordinatore che viene rinforzato da frasi come: “una brava moglie deve…”, “un buon soldato deve…” ecc.

Il sostegno ad una persona intrappolata in questo ordine di idee ha come fine quello di scindere la gratuità del valore della vita e della persona dal modello concettuale che lo vincola e lo incorpora, contaminandolo.

 

_”Attento che poi…”: è la caratteristica che risuona come minaccia di perdita del momento di piacere, a seguito di una qualche fantasiosa ipotesi di caduta rovinosa del proprio lasso di tempo dedicato all’appagamento. Chi vive sotto la cappa di tale fantasmatica intimidazione, non riesce in pratica a dedicarsi e godere dei piaceri della vita, anche quelli meritati, poiché rumina aspettative future o imminenti di circostanze ed eventi in grado di far precipitare il successo nell’insuccesso, la gioia nella disperazione, l’estasi nel compianto. Una sorta di catastrofista di se che inconsapevolmente genera proprio quegli accadimenti accidentali che rinforzano il suo programma scenico interiore.

Un individuo che possiede tale tipo di modello esistenziale ha sicuramente bisogno di un appoggio che lo autodetermini esorcizzando le aspettative negativiste. Penso soprattutto ad un cammino di crescita personale da cui apprendere un sano atteggiamento edonista, sobrio ed equilibrato, riscattatore e non ricattatore del proprio diritto a godere della gratuità del piacere senza paventare rovesciamenti di sorta, soprattutto se estranei alla sua volontà ed alla sua capacità di autogestirsi.

 

_”Non riuscirai a concludere (e se lo farai non sarà ancora abbastanza)”: è il micidiale comando interno di chi, pur centrando l’obiettivo tanto agognato, a fronte di sacrifici e meriti, assapora un retrogusto di insoddisfazione, un senso amaro che comunque ancora c’è qualcosa che non va. È la condanna dell’uomo che non si gode la vittoria, che non sottolinea il guadagno ma sempre la perdita e il disvalore, alla spasmodica ricerca di una irrealistica perfezione che tanto non sarebbe disposto ad avvertire e ad accettare. E se anche la meta fosse raggiunta se ne prospetta subito dopo un’altra, che distrae dal riconoscersi il percorso realizzato, e raggiunta la successiva eccone aprirsi un’altra ancora e così via, come in una spirale di una ingestibile ambizione che mascherata da potere e successo nasconde invece la più friabile delle debolezze.

L’individuo avviluppato da questo comando di irreprensibilità dovrebbe essere aiutato ad imparare ad affrancarsi da un’immagine di se contaminata dal mito della perfezione e dell’impeccabilità; e dovrebbe essere guidato nel percepirsi via via come persona degna e meritevole di considerazione per ciò che è, soprattutto ai suoi stessi occhi, e quindi imparare ad evidenziare anche i meriti e le vittorie, celebrandole e valorizzandole, accontentandosi anche di momenti appaganti del presente.

 

Tutte queste modalità attraverso le quali sceneggiamo di fatto il tempo della nostra vita ci rendono conto di come sia utile e necessario rivoluzionare alcune nostre strutture interne, per intraprendere un cammino di individuazione in cui la consapevolezza, come la verità, ci renda liberi, responsabili ed autonomi nelle scelte più importanti della nostra esistenza. 

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