Successo, Ego e potere. La privazione come valore in antitesi alla società dei consumi

Inviato da Nuccio Salis

privazioneIl counseling è inteso largamente come un percorso motivazionale. Intriso inevitabilmente dei valori della cultura occidentale basata sul profitto e sul raggiungimento di un soddisfacente status socio-economico, esso è deliberatamente utilizzato anche per aiutare l’individuo a trovare le risorse che gli possano far attraversare il guado delle barriere e delle difficoltà che si frappongono fra la sua insoddisfacente condizione odierna e l’auspicata realizzazione verso cui tendere con le proprie forze.

Personalmente non amo e non mi convincono troppo quegli orientamenti assai molto propensi all’individuazione e al raggiungimento del traguardo; quei percorsi in cui ciò che conta è la soluzione, la felicità dell’Ego, quelle proposte da spot pubblicitario imbonitore di soluzioni agevolate senza alcun rischio o senza alcun prezzo. “Felici ora”, sembrano richiamare alcuni autori, con tanto di sorrisi patinati ed ammiccanti che cercano di accattivare la complicità di chi sta cercando di scalare la vetta per arrivare al valore supremo verso cui tende la maggioranza: il successo.

E parliamone: il successo rappresenta attualmente la meta più agognata in una società poco coesa al proprio interno da rapporti solidali, invasata da una tensione allergica che tende a disgregare i gruppi umani al pari di una fissione nucleare nei confronti dei neutroni. È più facile accomodarsi a questo terribile tsunami, cavalcando l’onda di questa nevrosi ipnotica, dalla forza inarrestabile, che cercare di mettere in evidenza responsabilità individuali, allo scopo di modificare nefasti disordini nel pensiero e nei vissuti. Le persone desiderano il successo? Diamo loro il successo. I ragazzi non si applicano più negli studi? Riduciamo il programma ministeriale, tagliamo la conoscenza, adeguiamoci e rafforziamo questa generale apatia. Chi si rivolge al counselor chiede sempre qualcosa, nel senso che è portatore di una richiesta, un’istanza che può anche essere letta come bisogno non ancora soddisfatto. Spesso, tale bisogno è concorde con le mete accettate, condivise ed anelate dalla società. È, in pratica, un bisogno che fa parte dell’area del “di più”. Spinti come siamo a riempirci di inutile merce che compensi la povertà spirituale, l’insoddisfazione è il cibo quotidiano dell’individuo cresciuto nella società dello spreco e dell’opulenza, oggi fortunatamente ridimensionata da una crisi che, appena al suo inizio, condurrà ad un progressivo sfracellamento di questo sistema in decomposizione. Nel bene o nel male le nostre aspettative resteranno disattese, qualora si nutrano di concetti dualistici o materiali.

Vorrei anche precisare che il termine successo va chiarito nell’accezione dentro cui l’ho collocato. Nel senso che non equivale in questo specifico caso al raggiungimento di un vittorioso e meritato traguardo a valenza formativa e maturativa, va invece inteso come il principio cardine attorno a cui tutti gli elementi che vi gravitano assumono la forma di strumenti di sostegno, funzionali all’arrivo verso la meta augurata.

È questo che si chiede oggi, principalmente, e secondo questa visione, anche il counseling può essere visto come una potenziale strategia da cui ricavare quel potere, che acquisisce sfumature semantiche negative dal momento in cui si coniugano con la seconda accezione di successo che ho pocanzi descritto. Ed alcuni indirizzi metodologici lo hanno intuito, e dispensano precisi strumenti di comunicazione e di relazione alla portata di tutti, liberi di travisarne il senso originario, ed adattarlo alle esigenze più contemporanee della produzione, del convincimento, della vendita mediante persuasione, o del benessere dell’Io dove autostima ed egocentrismo non hanno più netti confini di significato. Gli scaffali di librerie e bancarelle di sagre paesane ne sono pieni, non possiamo far finta di non aver visto queste pubblicazioni.

Ma io mi chiedo, di contro, cosa deve insegnare il counseling? Quale capitale di valori, indirizzi ed opzioni etiche e comportamentali può proporre al fruitore che gli si avvicina? Deve spronarlo al successo, se questo coincide limitatamente con obiettivi di avanzamento di carriera e prospettive di guadagni superiori? Deve sottostare sempre alle richieste del referente? C’è una valenza sottilmente educativa nel counseling? Da intendere, naturalmente, come risorsa verso l’espansione delle proprie potenzialità espressive. Ebbene, se il counseling fosse fino in fondo, e forse non lo è, una risorsa a sostegno spirituale dell’individuo, le mete a cui tenderebbe sarebbero ben diverse rispetto a quelle imposte ed indottrinate dalla collettitività del consumismo (non riesco ad accostare il termine civiltà con consumismo). Probabilmente, di fronte ad una condizione di difficoltà e di privazione materiale, non ci vedremo necessariamente uno scapestrato, un disgraziato senza speranza né futuro, ma un potenziale beato, e forse noi dovremo seguire lui e non il contrario.

I testi sacri ci parlano tanto del valore della privazione, come situazione di partenza verso non un nuovo Ego, ma verso il superamento dello stesso, che invece si nutre solo degli incantesimi dei falsi profeti, e ce ne sono tanti nella nostra era contemporanea; non hanno il saio incappucciato ed un bastone, preferiscono indossare costosissime giacche e ammantarsi di un linguaggio scientifico. Due esempi altamente edificanti: dal Vecchio Testamento apprendiamo come Giobbe venisse appestato, col permesso di Dio, dagli ammorbanti interventi del demonio, che di volta in volta gli aggiungeva una disgrazia, conducendolo sempre più a un’esistenza di miserabile penuria. Egli, però, ferreo ed incrollabile, non maledì e non bestemmiò Iddio, che lo premiò restituendogli molto più di quanto gli avesse tolto, poiché “A chi molto fu dato, molto sarà richiesto” (Lc. 12, 48), ricorderanno più avanti le Sacre Scritture, per bocca di Gesù Cristo. Ancora Egli ci insegna, per restare in tema: “Se vuoi essere perfetto vai, vendi, lascia tutto e seguimi” (Mt. 19, 21). Lo trovo “leggermente” rivoluzionario rispetto alle rotte indicate dalla cultura contemporanea. Seguire ed abbracciare la Verità, riconoscerla senza burlarsene con aria di sufficienza, vivere con essa e per mezzo di essa, quindi nella sua Grazia, significa passare per la strada della privazione. Ed ecco che allora siamo vincenti non se possediamo, se troviamo le soluzioni, se facciamo carriera, se avanziamo di status; siamo vincenti se lasciamo tutto quello che abbiamo, lasciando che siano i morti a seppellire i morti; cioè noi stessi, che saremo morti fino a quando non ricorderemo o riscopriremo la vera vita. È raggiungere la piena conoscenza della Verità che assicura la pienezza della libertà, quella intima, profonda, originaria, che si priva, per l’appunto, quindi si libera, degli orpelli e dei fasti di cui è stata impregnata per nascondersi a se stessa: false idee, false convinzioni, falsa scienza ecc. Ai laici o a chi storce il naso, infastidito, lascerò un pensiero più profano, che è però consacrato nell’altare dell’arte: si tratta della chiusa di un brano del teatro-canzone dell’immenso Giorgio Gaber; si intitola Dove l’ho messa?, e finisce così: “un uomo senza Italia, un uomo senza casa, senza mamma, senza famiglia, senza storia, senza ideologie, senza capi, senza esercito, senza Chiesa, senza clero… un uomo senza niente è più leggero”.

Chissà se avremo il coraggio di ricordarlo in prima istanza a noi stessi.

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